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La fedeltà dell'assassina

I Noir erano una di quelle famiglie ricche e pompose, e come ogni famiglia ricca e pomposa, avevano, nella loro casata, ciò che consideravano bene e male. La generazione protagonista è una di quelle che non vuole avere niente a che fare con la "plebaglia", che non si lascia infangare le scarpe da gente qualunque. Ma c'è anche qualcosa che va ammirato in loro: l'orgoglio. "non strisceremo mai ai piedi dei potenti" mi diceva orgogliosa mia madre "questo no. Possono obbligarci a finanziare le gare fra polli del paese, ma nessuno di noi verrà mai sottomesso dal re". Questo era quello che diceva mia madre. Purtroppo aveva torto. Quando io compii sedici anni, proprio quella notte, bussarono alla nostra porta le guardie del re, io andai ad aprire insieme a mia madre. Avevano un mandato d'arresto, per Helenne Noir, per me. Lo lessero ad alta voce tra lo stupore generale, e poi dissero che avevamo tempo fino a mezzanotte. Dopodiché sarei salita al patibolo. L'accusa? Stregoneria. Mi avevano accusata di non essere umana! Vedevo sulle facce dei miei famigliari solo stupore, lo leggevo nelle loro mente, osservavo il loro cuore. Io invece ero molto arrabbiata, dentro di me sentivo crescere un istinto cieco, e da quell'attimo in poi non capii più nulla. So solo che quando mi risvegliai dal torpore, tenevo tra le braccia il corpo senza vita del capitano. Sulla sua gola un taglio, che coincideva con i miei denti. Mentre mi portavano via, ciò che avevo fatto non mi risultava terribile, bensì assolutamente piacevole. L'unico ricordo che avevo degli attimi di torpore era il sapore del sangue dell'uomo, che trovavo dolce sulla lingua, anche se con un sapore insolito. Subito dopo provai disgusto di me stessa; come potevo pensare a cose del genere mentre la mia famiglia era in pericolo, soprattutto se quel pericolo ero io? Stetti ad autoflagellarmi per un po', e poi mi permisi di pensare al mio destino. Ci sarebbe stata la forca all'alba? Un istinto dentro di me, probabilmente quello di pochi minuti prima, anche se meno intenso, mi disse, con una certa insistenza, di fuggire. E io volevo fuggire, ma qualcosa, il senso di colpa, forse, mi teneva incollata al pavimento della cella umida e buia in cui mi avevano gettato. Ma poi l'istinto ebbe la meglio: invece che scagliarmi contro le sbarre come un qualunque disperato, tesi le mani, mi concentrai e riuscii a fondere le sbarre con la sola forza del pensiero. Corsi fuori; i miei passi erano furtivi, il mio atteggiamento più silenzioso di quanto avessi mai fatto. Uscii all'aria aperta, fu una liberazione. Ora dovevo solo pensare al mezzo di trasporto per tornare a casa. Mentre passeggiavo per il borgo, mi venne in mente in pensiero a dir poco spaventoso: e se non mi avessero più voluto? Se avessero pensato che fossi un mostro? Scacciai subito quei pensieri e mi concentrai su qualcosa di più urgente. Come accidenti avrei fatto a tornare alla villa? Potevo vendere qualcosa... Oppure andare a piedi fino a casa. Ma, per quel che ne sapevo, ero distante almeno settanta miglia, pensai vagamente di scroccare un passaggio in un carro per arrivare almeno un po' più vicino. Poi guardai i miei vestiti: un ricchissimo abito blu scuro, anche se un po' sgualcito e strappato, comunque era evidente che appartenevo a una ricca famiglia. Ci pensai un su per poco tempo, e poi decisi: mi nascosi dietro in carro e mi strappai il vestito. Mi rimaneva solo la sottoveste, che somigliava molto a una veste da contadina. Era molto tempo che non mi guardavo allo specchio, o almeno per i miei standard; osservai il mio riflesso in una pozzanghera, e per poco non mi cadde la mandibola: i miei occhi! Da un color grigio mare, era diventati di un viola intenso. Ecco, ero a posto. Gli occhi viola erano molto insoliti, il popolo pieno di pregiudizi: di certo le guardie avevano già messo molti cartelli con la mia faccia disegnata sopra in giro, e; se le mie teorie erano esatte, quegli occhi ce li avevo dopo aver aggredito il capitano. Forse era il sangue umano che mi riduceva gli occhi in quel modo. A quel ricordo mi venne l'acquolina in bocca, mi chiesi se il sangue animale avesse lo stesso sapore dell'altro. Comunque quel pensiero mi faceva ruggire lo stomaco. Scrollai i capelli e mi riavviai. La verità era che mi trovavo in una situazione alquanto spinosa, dovevo tornare presto al castello, il che, anche sorvolando le mie più gravi preoccupazioni, sembrava impossibile. Ma avevo un altro potere: la realtà, che non era stata mai così reale, mi piombò addosso, schiacciandomi con il suo peso. Non sarei tornata, non lo avrei fatto. Li avrei messi in pericolo tutti. E io li amavo. Mi ricordo di una bellissima storia di un uomo che amava una donna, ma lei non ricambiava il suo amore. Una notte l'uomo l'aveva rapita. La desiderava con tutto se stesso, ma lei voleva solo tornare a casa. Fu allora che una voce nella mente dell'uomo gli disse "se davvero l'ami, la lascerai andare". Lui la liberò. Lei visse felice. Lui lasciò che la sua anima si dissolvesse, senza lasciare traccia. Io non dovevo lasciare traccia. Io dovevo dissolvermi. Un fracasso infernale mi distolse dai miei pensieri. Rumore di armi, erano venuti a prendermi. Schizzai da dietro al carro dritto nella foresta, nemmeno mi accorsi della velocità a cui correvo. In pochi minuti fui nel cuore della foresta. Non ero nemmeno un po' affannata. Affamata sì, ma non stanca. Passò poco lontano un branco di alci, mi stupii di riuscire a sentirli. Strisciai nell'erba e mi acquattai vicino al gruppo. Balzai fuori e le vidi fuggire, poi non fu più la mente a guidare il mio corpo, bensì l'istinto. Quando ripresi coscienza di me stessa, stringevo in mano il corpo dell'animale, che si agitava debolmente. Senza esitare, gli morsi il collo e immediatamente il suo sangue caldo mi bagnò la lingua. Quando fui sazia, gettai a terra la carcassa. Corsi per la foresta alla ricerca di un posto appartato che poteva fungere da casa. Lo trovai. Una grotta nascosta alla vista dalle radici di un'enorme albero che ci cresceva proprio sopra. Ci scivolai dentro e mi misi a riflettere. Chi ero? Cosa ci facevo in una famiglia ricca di persone normali? Cos'ero? Era questa la domanda che mi premeva di più. Come avevo fatto a fondere le sbarre di quella cella? Forse questa è l'unica a cui potrei dare una risposta. Una maga. Ero una maga. Quindi sapevo fare magie? Mi guardai intorno: niente. Non c'era assolutamente niente. A parte una cosa. "chi sei?" una voce allarmata dietro di me, mi voltai e vidi due occhi, uno grigio e l'altro viola. "Cosa ci fai qui?" domandò ancora. Poi mi vide bene, e trattenne a stento un urlo di sorpresa.

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1 commenti:

  • Anonimo il 06/06/2011 20:45
    Inquietante...