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Vecchio Pruno

Sabato, di metà novembre. Il sole incendia le foglie aranciate della Lagestroemia, e scioglie il mio mal di schiena, miscelandolo, da sapiente alchimista, con il mio mal di vivere. Un merlo redivivo zampetta tra le foglie ormai scarnificate del Rafano e sbeffeggia la mia pigrizia.
Vorrei adesso trovarmi sull’Appennino, nei boschi che i lupi hanno riconquistato e impastarmi di odori di humus, di funghi, di foglie marcescenti. Ma l’Appennino è lontano, nello spazio e nel tempo.
Mi consolo con l’autunnale sapore del vino novello, profumato ma ancora acerbo, una promessa d’inverno con tanta nostalgia dell’estate, una sfumatura viola che accompagna il desiderio di focolare, di calore del fuoco di legna buona.
Un’impensabile farfalla si posa sul ferro della cancellata a riscaldare l’iride delle sue ali e mi spalanca dinnanzi implacabili album di vecchie foto: estati antiche, di un giallo ambrato, di vesti larghe di cotone, sul corpo magro di mia madre. Profumi intensi, che non sento più, che non ho più sentito. Voci appena accennate, ma non sussurrate, forse soltanto lontane, che cercano qualcuno, che pronunciamo nomi che avevo dimenticato.
Si insinua un’ansiosa nostalgia e allora mi muovo, cauto, verso il pozzo rivestito di marmo e di cotto. L’occhio corre, oltre il pozzo, al verde marcio della Magnolia e l’orecchio lì si perde, per un attimo, nello sfrigolio cartaceo delle sue foglie.
Vado oltre e ti vedo là, dove sei stato per decenni. All’inizio non mi stupisco, la tua scheletrica figura non allarma la memoria della mia retina: semplicemente è come se tu fossi ancora lì, da sempre e per sempre.
Poi realizzo il presente e mi giro di scatto. Dov’era il tuo tronco l’erba è più verde che tutto attorno. Non ci sei. Non ci sei più da almeno trent’anni. Mio padre ti fece abbattere, per pietà. Il tuo corpo era oramai straziato da fessure in cui persino la resina sembrava fossile. Funghi cresciuti su di te erano diventati piccoli ombrelli di legno. Pareva di percepire l’erculea fatica che la linfa doveva produrre per risalire le tue vene. Solo pochi occhi di verde giallastro si aprivano ancora sui tuoi rami, a rubare qualche grammo di sole.
Eppure piansi, vecchio pruno, quando vidi il mozzicone del tuo tronco. Scrissi per te una poesia, piena di orgoglio e di rabbia.
Mi manchi, perchè io sono cresciuto attorno a te, senza rendermene conto, senza capire. Ho appeso il mio corpo di bimbo ai tuoi rami, ho mangiato avido i tuoi frutti, senza mai fermarmi a pensare a te, che invecchiavi e rimpicciolivi ogni anno di più.
I miei anni sono ingialliti e poi sono stati spazzati dal vento insieme alle tue foglie e non ho mai trovato il tempo di ringraziarti.
Sembrava che tu avessi un richiamo speciale per gli uccelli; quanti me ne hai mostrati e quanto tempo sono rimasto a spiarli sui tuoi rami. Forse lo facevi per me, forse per loro o forse era il tuo modo per ringraziare la vita. Il mio dramma è che ci penso solo oggi.
Mi manchi, vecchio pruno, perché senza l’annuncio dei tuoi fiori precoci, la primavera non è più la stessa.
Mi manchi, mi manca la tua tenera, paziente ostinazione. Non ti sei mai arreso del tutto. Il tronco spaccato, pochi rami mezzi secchi, ferite gommose ovunque, eppure qualche foglia, un fiore, una prugna hai continuato a regalarle all’egoismo del mondo, indifferente all’indifferenza.
Mi manca la tua voglia vivere, di superare tutti gli inverni, di porre una nuova gemma al centro della Terra e di ricominciare.

 

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