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Tre parole per sapere che cosa sia il buio della sera quando sta per nevicare

Stavo appoggiata all'angolo, proprio sull'entrata, alla sinistra della porta. Avevo cercato quella posizione apposta, per distendere le spalle facendo pressione tra le mura incrociate. Un piccolo scricchiolio mi fece correre un brivido lungo le vertebre e mi sentii un po' più distesa, anche se la tensione psicologica che lui riusciva a crearmi era ben lontana dall'abbandonarmi.
- Perché non vuoi parlare? Perché non puoi??
Sai quante cose mi piacerebbe dirti se tu me ne dessi l'opportunità. -
Continuava a guardare la finestra. Era questa l'impressione che mi dava. Lui non guardava fuori dalla finestra. Guardava la finestra stessa, nella sua solita posizione inginocchiata da samurai. Il suo sguardo non sembrava perso all'infinito, aldilà di ogni limite fisico. Almeno non certe volte, non questa volta. Pensava, pensava. Pensava a qualcosa. A qualcosa di triste, a qualcosa di felice. Forse di felice. Ma lontano o irraggiungibile. Come se non ci fosse. Come se non ci fosse la possibilità di averlo. Come se la sua mente partorisse una visione talmente utopistica di ciò che cercava con gli occhi, da scoraggiarlo a provare a volerlo, ad averlo, perfino a guardarlo. Come se volesse qualcosa che non esisteva o che non poteva esistere.
- Dammi una possibilità. Dammi la possibilità di farti capire che ti sbagli. Che cosa c'è di così lontano che non riesci ad afferrare? -

Che buon odore aveva l'aria. Ormai mi ero abituata al suo profumo, ma mi piaceva davvero tanto. Un misto di latte e biscotti. Come l'odore dei miei compagni di fila all'asilo. Un odore impresso nel mio inconscio che non avrei mai potuto dimenticare e non riconoscere. Alle volte il suo silenzio sembrava dedicato a lasciarmi tutto il tempo che desideravo per perdermi in quell'essenza.
Quando aspettavo che reagisse in una qualche maniera il tempo si dilatava, quasi lo spazio che intercorreva fra me e lui si deformasse come una bolla. L'impressione forse era data solo dai miei occhi stanchi, ma in alcuni istanti mi sembrava che quelle teorie di astrofisica inerenti, incapibili regole spazio-temporali, lette su qualche rivista scientifica, assumessero un senso logico. Pur rimanendo per me, incomprensibili.

- Toc, toc. -



Mi si gelò il sangue. Sgranai gli occhi e mi sentii avvampare le guance come la prima volta quando a dodic'anni feci la mia prima visita ginecologica accompagnata da mia madre. Il giramento di testa che mi colse quasi mi fece cedere le gambe. Ne sono sicura, una delle due da sola non mi avrebbe retto. Sentii le mani sudare e in un istante asciugarsi di freddo. La sua voce. Il suo pensiero. La sua mente entrarono in contatto con l'aria. E mi raggiunsero, nell'inequivocabile espressione incapibile di quell'istante, come fossero le frecce sibilanti del più maestoso degli eserciti spartani.

Rispondere. Si dovevo farlo. Ma non capivo. Tre, quattro, cinque secondi: che cosa avrei saputo rispondere mentre inesorabilmente il tempo sembrava levarmi la vita ad ogni secondo passato da quell'enigma grave.

- Chi è? -

- Sam e Janet. -

Poteva sembrare che cominciasse a comunicare giocandosi di me. A questo punto, non ci sarebbe stato nessun problema, avrei accettato anche questo compromesso. Eppure il suo sguardo, il suo modo erano ancora talmente distanti, rivolti verso qualcosa di così lontano dalla realtà. Un gioco di parole di derivazione anglofona. Tutto qua. Un modo per ricominciare, per tornare. Emerse dalla sua bocca come fosse una filastrocca ridondante. Che tornava a battere i tasti della sua ossessione imprendibile.

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1 commenti:

  • Kartika Blue il 15/09/2012 09:37
    Strano che nessuno ancora abbia commentato, è talmente bello! Questo racconto è delicato e avvolgente proprio come la neve! piaciuto tantissimo!

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