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Poesie di Giacomo Leopardi

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La vita solitaria

La mattutina pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca.
E le ridenti piagge benedico:
Poichè voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benchè scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl'infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita come a danza o gi

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Al Conte Carlo Pepoli

Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o moleste opre dispensi
L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell'oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all'intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per se sola
La vita all'uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a se, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
La natura mortal, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all'aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
D'esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a cui non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All'umana famiglia; onde agitato
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de' bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Nè men vano che a noi, vive nel petto
Desio d'esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Nè la lentezza accagionar dell'ore.
Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
Provveder commettiamo, una più grave
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggi dovizia

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Consalvo

resso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino; or già non più, che a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
Così giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonato:
Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,
Quella che sola e sempre eragli a mente,
Per divina beltà famosa Elvira;
Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
Ben mille volte ripetuto e mille
Nel costante pensier, sostegno e cibo
Esser solea dell'infelice amante:
Benchè nulla d'amor parola udita
Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
Era del gran desio stato più forte
Un sovrano timor. Così l'avea
Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
Alla sua lingua. Poichè certi i segni
Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
Lei, già mossa a partir, presa per mano,
E quella man bianchissima stringendo,
Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
Qual maggior grazia mai delle tue cure
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
Impallidia la bella, e il petto anelo
Udendo le si fea: che sempre stringe
All'uomo il cor dogliosamente, ancora
Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,
Addio per sempre. E contraddir voleva,
Dissimulando l'appressar del fato,
Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
Come sai, ripregata a me discende,
Non temuta, la morte; e lieto apparmi
Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio

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Aspasia

Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
Per abitati lochi a me lampeggia
In altri volti; o per deserti campi,
Al dì sereno, alle tacenti stelle,
Da soave armonia quasi ridesta,
Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina
Quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed erinni! E mai non sento
Mover profumo di fiorita piaggia,
Nè di fiori olezzar vie cittadine,
Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno
Che ne' vezzosi appartamenti accolta,
Tutti odorati de' novelli fiori
Di primavera, del color vestita
Della bruna viola, a me si offerse
L'angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice, fervidi sonanti
Baci scoccavi nelle curve labbra
De' tuoi bambini, il niveo collo intanto
Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
Con la man leggiadrissima stringevi
Al seno ascoso e desiato. Apparve
Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
Divino al pensier mio. Così nel fianco
Non punto inerme a viva forza impresse
Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
Ululando portai finch'a quel giorno
Si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar. Vagheggia
Il piagato mortal quindi la figlia
Della sua mente, l'amorosa idea
Che gran parte d'Olimpo in se racchiude,
Tutta al volto ai costumi alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l'errore e gli scambiati oggetti
Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa
La donna a torto. A quella eccelsa imago
Sorge di rado il femminile ingegno;
E ciò che inspira ai generosi amanti
La sua stessa beltà, donna non pensa,
Nè comprender potria. Non cape in quelle
Anguste fr

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Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir

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Poesie Giacomo Leopardi (1798-1837) è stato un poeta, scrittore e filosofo italiano ed è considerato tutt'oggi come il maggior poeta dell'Ottocento italiano e autore di spicco nella letteratura mondiale.
Leopardi ha dato vita ad una produzione letteraria di straordinaria ampiezza e livello.


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