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Poesie di Giosuè Carducci

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Autunno romantico

Di sereno adamantino su 'l vasto
Squallor d'autunno il cielo azzurro brilla,
Come di sua beltà nel conscio fasto
La tua fredda pupilla.

Come a te velo tenue le membra
Nel risorger del tuo bel giorno a l'opre,
Nebbia la terra, che addormita sembra,
Argentea ricopre.

Ed immoti per essa ergon le cime
Irte ed umide i grigi alberi muti,
Quai nel pensier cui la memoria opprime
I dolci anni perduti.

E via sovr'essi indifferente il sole,
Che al bel maggio rideva entro la folta
Fronda, ora fulge e non riscalda. O Jole,
Amiam l'ultima volta.



Sabato Santo

Che giovinezza nova, che lucidi giorni di gioia
per la cerula effusa chiarità de l'aprile
cantano le campane con onde e volate di suoni
da la città su' poggi lontanamente verdi!
Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria,
candido, radïante, Cristo risorge al cielo:
svolgesi da l'inverno il novello anno, e al suo fiore
già in presagio la messe già la vendemmia ride.
Ospite nova al mondo, son oggi vent'anni, Maria,
tu t'affacciasti; e i primi tuoi vagiti coverse
doppio il suon de le sciolte campane sonanti a la gloria:
ora e tu ne la gloria de l'età bella stai,
stai com'uno di questi arboscelli schietti d'aprile
che a l'aura dolce dànno il bianco roseo fiore.
Volgasi intorno al capo tuo giovin, deh, I'augure suono
de le campane anch'oggi di primavera e pasqua!
cacci il verno ed il freddo, cacci l'odio tristo e I'accidia,
cacci tutte le forme de la discorde vita!



Il comune rustico

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda ombra si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero

Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l'ombre d'un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtù

Accampata a l'opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
"Ecco, io parto fra voi quella foresta

D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà".

Un fremito d'orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la madre alma de' cieli.
Con la man tesa il console seguiva:

"Questo, al nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che nel popol sia".
A man levata il popol dicea, "Sì".
E le rosse giovenche di su 'l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodì.



L'ostessa di Gaby

E verde e fosca l'alpe, e limpido e fresco è il mattino,
e traverso gli abeti tremola d'oro il sole.
Cantan gli uccelli a prova, stormiscono le cascatelle,
precipita la scesa nel vallone di Niel.
Ecco le bianche case. La giovine ostessa a la soglia
ride, saluta e mesce lo scintillante vino.
Per le fórre de l'alpe trasvolan figure ch'io vidi
certo nel sogno d'una canzon d'arme e d'amori.



Eligia del Monte Spluga

No, forme non eran d'aer colorato né piante
garrule e mosse al vento: ninfe eran tutte e dee.
E quale iva salendo volubile e cerula come
velata emerse Teti da l'Egeo grande a Giove:
e qual balzava da la palpitante scorza de' pini
rosea, I'agil donando florida chioma a l'aure:
e qual da la cintura d'in cima a' ghiacci diasprati
sciogliea, nastri d'argento, le cascatelle allegre.
Sola in vett' a un gran masso di quarzo brillante al meriggio
in disparte sedevi, Lorely pellegrina :
solcavi l'aurea chioma con l'aureo pettine, lunga
la chioma iva per l'alpe, vi ridea dentro il sole.
In un tempio a larghe ombre di larici acuti le Fate
stavan, occhi fiammanti ne la gemma de' visi:
serti di quercia al crine su le nere clamidi nero,
scettri avean d'oro in mano: riguardavano me.
— Orco umano, che sali da' piani fumanti di tedio,
noi la ti demmo : aveva gli occhi color del mare.
Or tu ne vieni solo. Che festi di nostra sorella?
I'hai divorata? —E fise riguardavan pur me.
—No, temibili Fate, no, soavi ninfe, lo giuro:
ella è volata fuori de la veduta mia.
Ma la sua forma vive, ma palpita l'alma sua vita
ne le mie vene, in cima de la mia mente siede.
Con la imagine sua dinanzi da gli occhi tuttora
che mi arde, con la voce che dentro il cor mi ammalia,
suono di primavera su 'I tepido aprile dormente,
erro soletto il mondo, tutto di lei l'impronto.
Ecco, voi Fate e ninfe, paretemi, e siete, lei sola:
anzi in mia visïone v'ho create io di lei.
Ma ella dove esiste? —Lamenti scoppiarono, e via
sparver le ninfe in aria, via sotterra le Fate.
E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii
sprigionate co' musi le marmotte fischiare.
E mi trovai soletto là dove perdevasi un piano
brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro
ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace
tutto: da' pigri stagni pigro si svolve un fiume :
erran cavalli magri su le magre acque: aconíto,
perfido azzurro fiore, veste la

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