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La sacra di Enrico V

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Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli
E fiorite a' cimiteri son le pietre de gli avelli,
Monta in sella Enrico quinto il delfin da' capei grigi,
E cavalca a grande onore per la sacra di Parigi.

Van con lui tutt'i fedeli, van gli abbati ed i baroni:
Quanta festa di colori, di cimieri e di pennoni!
Monta Enrico un caval bianco, presso ha il bianco suo stendardo
Che coprì morenti in campo San Luigi e il pro' Baiardo.

Viva il re! Ma il ciel di Francia non conosce il sacro segno;
E la seta vergognosa si ristringe intorno al legno.
Più che mai su gli aurei gigli bigio il cielo e freddo appare:
Con la pace de gli scheltri stanno gli alberi a guardare;

E gli augelli, senza canto, senza rombo, tristi e neri,
Guizzan come frecce stanche tra i pennoni ed i cimieri.
Viva il re! Ma i lieti canti ne le trombe e ne le gole
Arrochiscono, ed aggelano su le bocche le parole.

Arrochiscono; ed un rantolo faticoso d'agonia
Par che salga su da' petti de l'allegra compagnia.
Cresce l'ombra de le nubi, si distende su la terra,
Ed un'umida tenebra quel corteggio avvolge e serra.

Dan di sprone i cavalieri, i cavalli springan salti:
Sotto l'ugne percotenti suon non rendono i basalti.
Manca l'aria; e, come attratti i cavalli e le persone
Ne la plumbea d'un sogno infinita regione,

Arrembando ed arrancando per gli spazi sordi e bigi
Marcian con le immote insegne per entrare a San Dionigi.
Viva il re! Giù da i profondi sotterranei de la chiesa
Questa voce di saluto come un brontolo fu intesa:

E da l'ossa che in quei campi la repubblica disperse
Una nube di fumacchi si formava, e fuori emerse
Uno stuolo di fantasmi: donne, pargoli, vegliardi,
Conti, vescovi, marchesi, duchi, monache, bastardi;

Tutti principi del sangue: tronchi, mozzi, cincischiati,
In zendadi a fiordiligi stranamente avvoltolati.
Entro i teschi aguzzi e mondi che parean d'avorio fino
Luccicavano le occhiaie d'un sottil fuoco azzurrino.

Qual brandiva, salutando, un cappel bianco piumato,
Con un gracil moncherino che solo eragli avanzato;
Qual con una tibia sola disegnava un minuetto;
Qual con mezza una mascella digrignava un sorrisetto.

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