Un foro d'amore gravido,
creai con la forza dorata del mio pianto,
in questo cartone
che il tempo coperta per me battezzò;
individuarmi sa sempre,
il canto ancestrale di stelle complici,
quando addormentarmi alla stazione,
elisir diventa,
di tranquillità carezzevole e illusoria.
Aspetto ha,
di ruvida, incostante preghiera,
questa povertà che mi dimora,
su strati di pelle
troppe volte umiliati e screpolati.
Ma sono sempre io,
frammento ingovernabile
d'un precario infrangibile
che vestirsi non vuole nè sa
di definitivo addio.
Qual libro infuocato e urlante
essere sa questo naviglio
che sfogliare sa
con dita incantate di madre,
le pagine di ciò che non fui,
ma neppure, in fondo,
mai rimpiansi di essere.
Custodiscono le mie orecchie,
bisbigli di passi indifferenti
ispido vociare di anonimi passanti,
sguardi protesi
sulla dama seducente e impietosa
d'una fretta che è dimenticare,
dimenticarsi.
Or si offre, sempiterna,
la notte a me complice violino,
pizzicano le mie mani tremebonde,
rughe tracciate indelebili,
da un'adottiva madre
che imparai a chiamare solitudine,
mai forse crederesti, amico,
che esiste un fascio di respiri,
che ruggisce nella vita mia,
e incrollabilmente spera,
di farsi un giorno poesia.
Vado ora,
come sempre più di mai,
un'altra notte il mio autografo attende,
di tenerezza e follia,
perchè quest'esistenza
pur traballante e infida che sia,
di concedersi accetti,
autenticamente mia.