È tetro il desco, chiuso in un distacco
che quasi irride l'albero e l'addobbo.
Si perde la speranza nel vermiglio,
nello smeraldo, nei vestiti buoni,
nel goffo tintinnare di forchette.
E in mezzo a tanti desolati suoni
tacciono tutti, anziani e giovanette,
madri e bambini: non s'odono i canti
dei bevitori, l'aspro borbottare
della zitella, gli innocenti vanti
del cugino in carriera, né più il figlio
ragiona di politica col babbo.
Qual sorte ci toccò, quale flagello
il tempo come dono porta seco
a noi, scotendo il polveroso sacco!
Senza clemenza piega questa sete
il verde arbusto come il vecchio abete,
il lupo come l'innocente agnello.
Lo specchio cela un volto disumano,
destatosi da un lungo sonnecchiare:
crebbe con noi, come gemello insano
che già infestava le materne fasce,
mordendoci, rubando il latte. Un cieco
timor banchetta, e l'anno non rinasce.