Per pace vado oltre il cancello,
confine e soglia taciturna
tra la parte dei vivi e la quiete.
M'accoglie un abete,
una lunga fila ad anello
di cedri, salici e cipressi,
un variar di marmo messo in croce,
il ferro forgiato o arrugginito,
il legno inchiodato senza voce
e acerbi ceppi genuflessi.
Molte pietre solo numerate,
avelli e fosse mai scavate
tutti uguali ch'ormai son nessuno.
Il picchiettar del sole, distaccati,
scopre ardesie e busti d'alabastro,
prestigi d'uomo arabescati;
e tempietti d'onice ad incastro,
e tronchi e stele e monumenti:
l'isolata stazione degli abbienti.
Lo sfoggio ancor di signoria,
quel contrasto patrizio del pregiato
mi porta a pensar con apatia
se eran svegli allor che il Padrone
tornato fu della Missione.
Tra evonimi, tassi e travertino.
l'illusorio cammino s'è fermato
e anche se inciso o lavorato
il granito non fa la differenza.
Provo cagione di totale assenza,
come spada la croce mi ferisce
e stordisce spartir fuori le mura
quel vissuto ormai oltre misura.
Mi passa davanti in un minuto
quel frenetico vivere veloce
che di tutto fa simulazione
per vendere cara l'illusione.
Come vorrei fermar la notte fonda
ma preme passar ne l'atra sponda.