Quando ormai da troppo tempo le lacrime tiranne
espugnavano il mio viso e la mia nave vagava
in balia di venti gelidi e devastanti,
incontrai un giorno uno splendido gabbiano,
volteggiante libero nei cieli variegati della vita.
Mi ammaliò il suo fare dolce, il suo esplorare con ardore
le intricate foreste dei sentimenti,
la sua voglia di volare,
il suo osare percorsi sopra le nuvole,
il suo costruire in cielo immagini magiche per sognare
e per far sognare.
Mi raccontò del suo errare impetuoso in mari tempestosi,
a volte freddi ed inospitali,
del suo incessante peregrinare alla ricerca di sè stesso
e di quella baia verdeggiante di nome serenità.
Libero di essere sè stesso, sempre,
e di esserlo senza nuvole,
questo leggevo nei suoi occhi color cielo.
Mi contagiò d'un gradevole contagio,
e la mia nave tornò ad accendere i motori
dell'entusiasmo assopito,
verso i mari calmi o burrascosi di quest'opera d'arte
chiamata vita.
Ora so che le grandi tempeste conducono sempre a grandi
sogni e che i tramonti parlano al cuore quando lo scalpitante
vivere sconfigge l'ozioso esistere.
Grazie di cuore, gabbiano Francesco!