Me n’andavo per via, una sera,
e, tra visi diversi, lo vidi:
un volto di tanti anni fa;
quindici anni, tra noi.
Un nome, un abbraccio e, subito,
fu l’andare con la mente a quel tempo.
Ci rivedemmo passeggiare sul corso,
erano le pause alle ore di studio
(c’erano gli esami quell’anno);
le pazze risate sfrenate
facevano voltare i passanti.
Ma noi non ci curavamo:
la vita ci apriva le porte.
“Ricordi, - io dissi - quel giorno
che, in gita, perdemmo la voce
per il troppo cantare
e il professore di disegno, in girotondo
racchiuso tra decine di braccia,
sulla spiaggia, fu costretto a ballare?”
Annuì, appena schiudendo le labbra
in un debole sorriso.
Ora ricordavo quella luce di gioia
che il suo viso rendeva splendente,
quasi il suo spirito
volesse il corpo lasciare,
per librarsi nell’aria,
quando sull’altalena volava,
ogni slancio più in alto,
come il cielo a volere
con forza sfiorare
e aggrapparsi a una stella;
e restare lassù, a guardare.
Ora ci troviamo nel cortile della scuola;
la colazione divisa a metà.
Il suo sguardo è assorto, più serio:
forse improvviso un ricordo
rattrista il suo cuore.
Non parla,
non vuole turbare anche me.
Ma il mio sguardo
fuga il suo turbamento;
appena lo coglie, si scuote
e, quasi arrossendo,
per il mio vedere,
ritorna a sorridere.
E adesso, guardando quel viso,
non rivedevo la stessa di allora,
cui, prima del labbro,
ridevano gli occhi.
La voce aveva di chi
gli han rubato il sorriso,
hanno distrutto i vent’anni.
“Amica! - allora le chiesi,
guardandola seria nel volto -
Amica, che cosa ti hanno fatto?”
Il suo fu quasi un sussurro a sé stessa:
“Mi hanno strappato la vita!
Hanno spezzato i miei sogni!”
Nel suo abbraccio, un desiderio
struggente di quei diciott’anni.
La sua voce sapeva di pianto.
Poi si voltò, il passo senza
più voglia di finire la via.