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AL TERMINE DELLA NOTTE
Viaggiare in treno di notte,
immergersi nel buio,
e solo per sbaglio incontrare
una città.
La distanza tra trasportato e trasportatore
si dissolve nel tepore
dove nascono i pensieri.
E fluttuo via,
lungo binari invisibili, immaginari,
che nascono dal caos ardente dei regni segreti
della mente.
Risalgo le rose cristalline che coprono il tendone
di un circo urlante
pensieri di prove e sudore.
Vedo le mura di Babilonia
cadere.
Vedo gli alfabeti confondersi a Babele.
Vedo i leoni insegnare agli uomini
primitivi la caccia e le leggi.
Vedo quindici uomini inseguire il vento,
divenirne amici,
fondersi con esso e
li vedo divenire brezza mattutina
sulle labbra amate.
Vedo in Namibia tetti spioventi
per la neve che non verrà mai.
Scalo il Kilimangiaro con un passo e lo sposto
a sud di nessun nord.
Le porte della follia e della conoscenza
mi compaiono di fronte e
si aprono come ali di falco estinto,
anche se non ho bussato.
Sono invisibili,
sanno di verde,
un verde lucente,
cangiante,
un verde che unisce e divide e mescola.
Vedo me stesso e me stesso e me stesso
e con tutti e tre parlo:
gli spiego chi sono e loro lo spiegano a me.
I tre me bruciano,
bruciano calmi con fiamme ordinate e spaesate,
e dalla cenere rinascono tre fenici.
Mi abbevero al loro fuoco fatuo
risorto dal corpo.
Al primo sorso divento un’onda nell’immensità
dell’Atlantico in burrasca,
tra la fame di disperati
naufragi e quella del mare.
Non tremo dinanzi l’abisso che nutro.
Non tremo nel cuore profondo
dove custodisco dalla vigliacca luce
i figli di Atlantide e i mostri marini.
Al secondo sorso sono il lampo,
riflesso del fulmine,
luce e suono dell’ira divina.
Al terzo sorso il mondo cambia,
si scioglie in mille colori.
Tutto diviene colore,
anche i suoni e gli odori e gli esseri viventi e i sentimenti.
Tutto ciò che è,
è un colore sciolto.
Tutto ciò che esisteva e aveva forma e idee,
esiste ora in un lago
dove s’è riversato tutto il creato.
Un unico lago di sostanza primordiale.
Le potenziali stelle brilluccicano ancora,
si mescolano ai ricordi, o presunti tali,
di un potenziale nonno tra un potenziale nipote e
una potenziale guerra combattuta e
potenzialmente vinta.
Tutto intorno mancanza di esistenza.
Sopra e sotto, a destra e a sinistra,
dovunque altrove,
la privazione stessa dell’esistenza regna.
Il non essere permeava e prosperava,
cancellando nei ricordi dei senza nome
il nome del Principio generatore.
La creazione era regredita ad una pozza di spirito esistenziale.
I miei pensieri si scioglievano
non appena venivano formulati ed accrescevano
il nulla divoratore mai sazio.
Sorse allora dalla pozza stessa
una voce viola calda e fredda,
una voce che era luce e volontà,
una voce che richiamava il Destino al proprio dovere.
E il Destino inesorabilmente obbedì.
Prese la chiave della creazione,
la infilò nella pozza e girò tre volte il chiavistello
acquoso.
Per primi alcuni dei nordici e l’incarnazione degli alberi di montagna
rinacquero, poi fu la volta del cielo e del mare,
che faticò non poco a districarsi dall’arcobaleno.
Vennero quindi dal cuore delle idee gli aborigeni e
gli stregoni aztechi col manto d’aquila urlante.
Vennero e sognarono i cinque continenti, e l’uomo,
e la donna.
L’uomo e la donna si baciarono
e figlio fu l’Amore. Ma l’ombra dell’Amore è
suo fratello Odio, che conosciuto il Potere nell’ora
in cui le piramidi volgono la volontà al riposo,
generò la Storia.
L’uomo allora uccise suo figlio Amore
in nome del progresso,
per purificare col sangue la Storia.
Amore resuscitò dal proprio sangue
per bocca di un non ti scordar di me,
che ne divenne il profeta in terra
per chi avesse avuto, e avrà, orecchie per udire,
occhi per lacrimare.
I sogni della ragione penetrarono
la casa dell’uomo e della donna,
ne colorarono le gesta per ricordare;
i sogni dell’utopia
dominarono le menti dei figli dell’uomo
e germogliarono nei loro occhi
la Speranza del futuro e la Paura del fallimento.
Si aprirono abissi negli animi,
dove nascondere gli orrori impronunziabili,
se non da soli, al buio, guardando negli occhi
il condannato che penzola dalla forca,
sperando di aver maggior fortuna.
Le Paure si accoppiarono selvagge:
i figli giacquero con le madri,
i fratelli insinuarono la lussuria tra i grembi delle sorelle,
e le neonate Paure s’allattavano alle menti
degli uomini e degli dei.
Il Destino, dal suo trono di guerre e teschi e vite vissute,
tossì tre volte con noncuranza davanti
allo sterminio generato dal diluvio di paura,
che dilaniava la vita nell’universo appena rinato,
almeno dal mio punto di vista,
ma già vecchio di millenni per chi vi dimorava.
Una stella cadde dalle mani del reggente cieco,
che tutto nitidamente vedeva e sapeva,
sul creato, nel cuore di uomini e bestie;
andò ad accendere quella torcia di sostanza divina
presente in ogni essere, vivente e non,
e da quel gesto di speranza nacque la Follia,
distruttrice di Paure e latrice di sventatezza e ardore.
Il Destino, conscio dell’imminente punizione,
chiamò sua sorella Morte e le confidò segreti
che ella conosceva, anche se fece finta di rimanere sorpresa.
Le labbra della Morte,
rosse di un rosso santo,
perfetto e puro,
si posarono sul Destino,
che esplose in una tiepida pioggerellina estiva.
Fu la prima pioggia e portò con sé
il libero arbitrio.
Il canto della creazione s’espandeva
e
contraeva.
Millennio per millennio,
per miliardi di chilometri e oltre l’inimmaginabile.
Ma io fui rapito e riportato al mio corpo.
I tre me mi aspettavano
esausti dai rispettivi viaggi nella culla
dell’essere.
I nostri pensieri evaporarono dalla testa
in un valzer di meraviglia e cominciarono a fondersi.
Poi le voci di noi quattro me stessi si saldarono l’una all’altra.
E le membra, la colonna vertebrale, gli occhi.
Per qualche infinitesimo istante
fui un ragno umano.
Poi fummo fusi e mi ritrovai solo
nel ventre oscuro di un nessun luogo.
Camminai in cerchio
molte lune,
segnate nel cielo da un enorme polmone,
che respirava affannoso come una notte
di Amsterdam,
fino a raggiungere
il mio posto nel treno.
Sbadigliai.
Le stazioni si intravedevano di rado
nel torpore di un’alba qualunque,
mentre i quattro soli si svegliavano dal
letargo invernale e i binari sfrecciavano
tra una stella ammaccata
e una orchidea gigante su cui era appena nata
una nuova città.
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