Un canto di campane mi riporta
alla mia fanciullezza, al tempo gaio,
al borgo antico, incastonato nei monti,
con le sue scalinate e gli angoli di pietra.
Batteva mezzogiorno e poco dopo
suonava il grido di mia madre che chiamava,
e l'eco del mio nome ovunque mi giungeva,
balzando tra strade e vicoli scoscesi.
Ed era tempo di lasciar giochi e compagni
e ritornare, altrimenti eran guai!
Nella grande cucina tutti insieme,
mangiavamo tavolate di polenta.
Non v'era tempo per la malinconia,
non v'era noia, ne pene, ne tormenti.
Anche le malattie eran giocose,
con i regali inattesi che arrivavano.
Era una grande casa il vecchio borgo
dove tutti si conoscevano e salutavano,
con il dialetto antico si parlavano,
con buffi soprannomi si chiamavano.
Non v'era cattiveria, non c'eran malandrini,
per me era una festa, per tutti noi bambini.
L'estate per i campi, l'inverno con le slitte,
dei balocchi il paese, paradiso perduto.
Vorrei poter donare ad ogni bimbo
disseminato nel mondo disgraziato,
nato tra fame e guerra, tra i tormenti
la mia infanzia serena, almeno quella.
Che sia almeno questa la vittoria,
il senso della vita: pochi anni
felici e spensierati e poi rimane
quel che rimane, la vita ed suoi inganni.
L'ingiustizia, la morte e le sue ali,
la cattiveria dell'uomo ed i suoi mali.
La violenza, la fame e i suoi fratelli,
l'amore ed il rancore, i due gemelli.
Non ho più ritrovato quel sorriso
dell'infanzia passata, quella gioia.
O forse un giorno, con il mio amore perduto,
su una spiaggia assolata, a piedi nudi.
Ma è stato un attimo, una reminiscenza,
un raggio di allegria, un tornare bambino.
Un sogno che risogno, che mi aiuta ad andare,
per le vie del dolore, e a sperare.