Mutevole migrare di sentimenti,
profonde radici di diffidenza,
insulsa folla ciarliera,
derisorio battito di mani,
interminabile fiume di parole spente..
fate calare le mie palpebre stanche.
Cerco la mia ruvida fune robusta
cui, vigliacca, mi possa aggrappare
per varcare le mura del mio silenzio.
Cerco la memoria delle belle emozioni,
che faccia sgorgare i ricordi lieti..
giacciono distesi come fiori appassiti.
Non tollero labbra rifatte di gesso,
sguardi malconci di inutile ipocrisia,
né scialbi sorrisi carichi d’odio.
Vorrei solo due occhi complici,
che mi donino parole gentili
e mi rubino al mondo per un istante.
Sono una libellula cieca con un’ala rotta
aggrappata ad una tenda per non morire,
indesiderata spettatrice di una realtà che non le appartiene.
Chiasso sotto di lei, gesti intrecciati in movenze inconsuete,
eppure lei resta immobile, salda,
non vuole cadere.
È l’invidia a rendermi cieca,
rea inconsapevole e avida di peccato.
È per difendermi che mi sono rotta un’ala:
giudici corrotti di presunzione,
non pronunciate verdetto
prima ancora di aver udito la mia coscienza.
Ascolto nenie stonate per non dormire
e osservo la mia ombra allungarsi su una parete che la rifletta più nitida:
è bramosa d’uno specchio cui possa narrare di lei.
Assetata mi rigiro in un fazzoletto di terra,
non riuscendo a scorgere la distesa d’acqua
che si trova al di là della collina.
Un giorno qualcuno verrà a prendermi la mano,
già odo il dolce cullare di ingenue parole:
“Vieni con me stellina schiva,
vieni e raccontami di chi ti mentiva,
di chi ti ha adulato
e, nascondendosi, ti ha disprezzato,
di chi ti ha rubato la luce
quando nella notte splendevi felice,
di chi ti ha strappato via il sorriso
e se ne è andato del tuo amore intriso”.