Sopra un tappeto di robinie
a piedi scalzi ami danzare
sulle note di un dolente fado
ombra inquieta della notte.
“Non vi fu per te forse giustizia?
Ma qual senso ha che adesso,
venga a turbare il sonno mio? ”
“Vorrei tu mi narrassi”, chiesi.
E tu mi raccontasti affranta:
“Così come mi vedi io ero,
quel giorno che più funesto
mai esser potrà d’un altro;
quando il mio ventre tondo
mascherar oltre non potei
e l’uomo che sposai lo scorse”.
“Sposa per vil danaro, io fui,
sol questo gli riuscì d’amare.
Ma il cuore mio sposato era,
al giovin che al nome tuo voltava
e pur di te vaga sembianza aveva.
Così, quando trascurata presto fui,
in amore e ardore cercai ristoro,
tornando di nascosto da Marcello”.
“E cosa accadde poi? Narrami ancora! ”
“Non volli mai svelare il dolce nome
al bruto che percosse il ventre mio,
ne’ le sevizie poteron oltre servire
e quando fui lasciata abbandonata
di notte partorì senza un lamento”.
“Dall’utero fluiva la mia vita,
la vita mia vagì, posata in terra.
Con l’ultime mie forze a me la strinsi
la tenera creatura derelitta”.
“Così spirammo insieme mamma e figlia”.
“Ben triste è la tua storia, anima pura,
che i giorni a me serbati serberanno
nell’anima, nel cuore e nella mente”.
“Ma cosa posso far per te, cedimi affanni! ”
“Marcello mai non seppe del mio fato
così pensò l’avessi alfin scordato.
A te narrando la mia sì triste storia,
mi pare come se a lui racconto ora,
chè d’animo gentil e puro siete parenti”.
Ristetti per un poco a meditare poi,
con al petto un gran tumulto,
piangendo, a stento le risposi:
“Oh povera creatura mal difesa,
se sol potessi io darti conforto! ”
“Una parola sola con il cuore, una sola,
mi sento di poterti dire ora: Amore! ”.
Disfatto all’improvviso crollai sul letto,
dormendomi d’un sonno calmo e lieto.
Il dì seguente che al sole aprì la vista,
accanto al mio cuscino v’era un dono:
sopra un velluto bianco, un fiocco rosa.