Echi familiari;
Vampe accese, aghi sottili di dolori mai sopiti s’incuneano crudeli alle orecchie sanguinanti.
Parole lanciate con rabbia, rancore e speranza.
Disarmoniche frecciate d’ira,
dodecafoniche saette scagliate dall’arco tronfio d’un amore mai iniziato.
Portami lontano!
Questi suoni m’appaiono risi beffardi, maschere teatrali sbiadite d’una commedia che ha avuto ormai troppe stanche repliche.
Ma eccomi al limite, il confine dove non c’e’ oppio.
Il giorno ha sfinito le mie aride vallate di parole ed io mi ritrovo solo, disperso su verdi colline di muffe aspettando che aghi affilati trafiggano nuovamente la mia carne, troppo lungamente sopita da infami analgesici rosa.
Qui la solitudine è sete.
È un fiore che brucia eterno nel mio avido deserto d’illusioni.
O tempo asciutto e smagrito di miserie!
Concedimi i tuoi figli.
E se dai Secondi saprò trarre vantaggio, dammi in dono anche i Minuti in modo ch’io possa sottacere alle tue infamie tornando indietro.
Tornare indietro, si!
Indietro da questa solitudine senza dimora.
Indietro da questo vagabondare senza sosta.
Indietro.
Alla nascita.
Ed ancora oltre.
Nel buio.
Ma eccola di nuovo.
Cosa?
La solitudine.
È una spiaggia, è dove il mare sfiora la terra macerando alghe in decomposizione.