Arrivavi alla mia cassa la sera,
all'ora di chiusura,
forse perché la gente ti faceva meno paura.
Minuta, quasi invisibile,
capelli attaccati al viso,
coperto da un grande fazzoletto,
annodato sotto il mento.
Persa,
dentro un grande cappotto,
d'inverno, d'estate,
dentro enormi scarpe da ginnastica,
tante volte più grandi dei tuoi piedi,
zavorra per tenerti a terra,
non avevi le ali per raggiungere il cielo.
Parlavi di un figlio colto e lontano
e di ricordi persi,
smarriti tra i cassonetti dei rifiuti,
dove frugavi,
come suonare un piano.
Ti chiamavano papera,
per il tuo incedere
per quelle tue grosse scarpe,
ma io ti chiamavo signora,
ti guardavo,
sempre sola in disparte.
Andavi e venivi di notte,
per sfuggire alla vita
che ti aveva già preso a botte.
Un panino, una parola,
ti bastava per ripartire
con la tua dignità ferita,
la risata di una ragazza
che, come pietra, ti aveva colpita.
Nella notte tua amica,
il suo sguardo pungente,
lontano dal mondo e dalla sua gente.
Fra un fiore, i sassi e per terra,
dove dormivi,
dentro la terra,
dove ora respiri.