Si trascina, stentato e sconfitto,
questo giganteggiare fine a se stesso del profitto,
triste fine e ardua risalita,
ti attendono in una lingua imprecisata di storia,
tintinnare sadico di un capitale,
che si è perduto in un fiume d'ombra,
quando serrato ha gli occhi,
sulla coesione sociale.
Demone nervoso e folle,
si è scoperto un frammento di imprenditoria,
quando accumulare redditi
più non è diventato
scopo a servizio di altri nobili scopi
ma puro, marcio omaggio alla follia;
si trascina in un tetro sillabario,
la lingua biforcuta e tagliente
di uno stritolante sistema bancario;
l'uomo resta solo
nella ragnatela dei suoi laceranti debiti,
che scottano più d'una tropicale arsura,
e sospingono feroci e sghignazzanti,
tra le ganasce impietose dell'usura;
no, capitale,
udire da te non intendo,
che ti sei già arreso,
sol perchè l'uomo che ebbe il genio di crearti,
è quello stesso che ti ha più volte offeso;
rinascere puoi, più solido e amorevole,
nella fierezza di un sistema industriale,
se specchiandoti in te rinverrai,
il volto nuovo,
di un respiro solidale e sociale;
dire non so,
in quale angolo di mondo fossi,
mentre osservavi l'ultimo fiato,
di un comunismo prostrato e sbriciolato,
so che riassaporare puoi,
la tua primitiva, industriosa purezza,
se sulla tela della tua missione etica,
ridipingerai la tua bellezza;
e allora a dissetare tornerai,
l'operaio che ti ha fondato con il suo lavoro,
e allora di nuovo sarai,
sinfonia di carezzevole certezza,
per le famiglie che di te si nutrono;
e te ne prego, dunque,
mi puoi sentire in ogni fabbrica del mondo,
l'urlo maestoso della tua opulenza,
sappia racchiudere
la voce del benessere di tutti
perchè finalmente abbia a morire
la velenosa, inconcludente stagione,
della tua degenerazione.