Il bar è la consueta giostra impazzita,
di voci intrappolate
distratte,
talora sguaiate e assonnate,
tra sogni di schedine cambiavita,
e grappini d'amicizia o di oblio;
rantola su un vecchio tavolo di legno,
quell'asso di quadri
che appartenere non desidera
nè mai desidererà
all'effimera sensazione di vittoria
di chi da anni ne implora
la presenza tra le sue dita;
ma l'onda ubriacante
dello scomposto berciare
il palcoscenico cede ormai esausta
al fruscio che mai trascorre,
del giro di un vecchio piatto;
una monetina
persa sul fondo di una tasca
e ritrovata in un sussulto di nostalgia,
e la magia si abbevera,
alla sorgente della consistenza,
riscoprendosi impronta di canzone,
forse per dare ossigeno
a un martellante dimenticare
o forse solo
per pensare alle parole
da recitare a cena
alla compagnia dell'ennesima illusione;
e il caro, vecchio juke box,
recita la solita parte,
di amico intriso di sette note,
incapace di ascoltare,
ma capace di conoscere
i tempi carezzevoli del consolare.
Si compone il sapore
scintillante come una vecchia collana
di perle di bellezza ancor vergine,
di un vecchio motivetto da balera,
che le dita affusolate di mia nonna,
affidavano a un pianoforte
che fu maestoso e finì scordato dai rimpianti.
Ruggisce l'estasi indiavolata
del primo boogie woogie
che si spogliò dell'anima yankee
per farsi italica acrobazia,
il ritmare ansimante
di una rhumba color rhum
che disegna atmosfere
ruvide ma avvincenti.
Adorato, immarcescibile jukebox,
i tuoi dischi scivolano
nell'ombra affamata dei giorni,
come folate rinfrescanti di vento,
e danno agli anni,
il vero, autentico,
impalpabile nome di anni.
Ogni giorno una canzone,
e ogni canzone,
il nuovo redigersi
di un vocabolario di emozioni inesplorate.