Vi odo
come inviolabili serpenti di rame
a sghignazzare festosi e compiaciuti,
tra le fontane disperse
del mio sangue impotente,
siringhe che vi addestraste a mordermi
con gli aghi vostri figli fedeli
di una follia scaltra e assassina
brava a celarsi tra nubi di indifferenza;
vi invita a pavoneggiarvi
irriverenti e taglienti
il calpestio dei miei rantolii
che giacciono inascoltati
come inutili avanzi di cibo
tra le labbra di questo esile giardino;
la vostra daga di perfidia,
straccia disegni di nuvole
che gemono in un urano disorientato,
spettatrici logorate
dalla mia impotenza a scoprirmi
storia profumata di vera storia;
guarda laggiù
la processione silente
dei giorni che ho smarrito
in lingue di nebbia di illusioni,
ti sapranno raccontare,
di un uomo che non ebbe mai voce
per chiedere a se stesso
di inventarsi uomo
di baci di donne
che schioccavano tra le finestre dell'ombra,
per indurmi ad amare,
l'idea irraggiungibile di amarmi;
forse ha smesso di brillare,
o forse, chissà,
ha deciso di brillare in modo differente,
il lampione della mia resurrezione,
che agita i suoi fasci di luce
tenui come corde di un violino maturo
al di là della barra dell'orizzonte;
anela a parlarmi,
ma non lo odo,
ha due ali racchiuse
nella sua esile lampada
cui vuole infondere amorevole
il siero di un mio nuovo volo.
Ma no,
la droga è come una mareggiata vigliacca,
che mi imprigiona nello stridulo gracidare
del suo annientante risucchio.
E resta questo soltanto
sul filo pungente come ortica selvaggia
del mio destino,
una scia di sangue
che si dispera in un piccolo giardino.