Damasco,
dolce conchiglia arabica,
intarsio di arazzi secolari
di accecante seduzione,
l'alba vigliacca ti riveste,
di un ruvido mantello color sangue:
il destino ti frusta
sogghignante e sempre inappagato
fiera matrona siriana,
e disegna sul tuo fiume
di incandescente anelito alla libertà,
istantanee di bambini
dal respiro incenerito
prima ancora di diventare fiamma orgogliosa;
urlano donne
schiave d'un velo carceriere,
ma la radio dell'Europa è spenta;
il palazzo di incompiuta identità
non sta ascoltando le suppliche dei piccoli
che implorano al sole
di non inghiottire i loro flutti di speranza,
come un avido, accanito leone
corroso dalla fame.
Assad,
in quale bosco di maledetta, assordante follia,
ha abbandonato il suo cuore sonnecchiante
rinnegandolo, rinnegandosi,
incatenandolo, incatenandosi?
Quegli stessi bimbi a cui ignobilmente stracciò
la pelle della vita,
come un bisonte dalle cervella imputridite,
violenteranno le sue notti di guano,
con il grido del loro futuro negato,
sarà la sua stessa vita,
ad ammaestrarla a maledirsi.
A te
Siria prostrata,
dire vorrei questo soltanto;
esiste per te in qualche spicchio di urano,
un vestito color ebano e sorriso,
pronto ad accompagnare il tuo cammino,
verso un nuovo, felice, celestiale canto,
che sappia ornarsi di seduzione,
per ogni tua futura generazione.