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Racconti su avvenimenti e festività

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Acherontia atropos (prima parte)

Avevo lavorato duro per tutta la giornata, ma almeno avevo terminato l'aratura. Il mattino era stato soleggiato, ma fin dal primo pomeriggio nuvole scure venivano riempiendo il cielo da ovest. Verso sera, mentre stavo liberando i buoi dal giogo, già si intravedevano i chiarori di lampi oltre le colline e si udiva il sommesso brontolio del tuono. Mi affrettai verso la fattoria. Accuditi gli animali, mi ritirai finalmente in casa. Avevo tutti i muscoli indolenziti, specie quelli delle braccia. Sono giovane e abituato a lavorare la campagna, ma guidare i buoi per un giorno intero non è faccenda da poco. In cucina mi aspettava un avanzo di minestrone da riscaldare. Da quando sono solo cucino sempre per due o tre giorni, così per un po' non ci devo pensare. Accesi la stufa e vi misi su la pignatta, presi dalla piattaia la scodella e un cucchiaio, prelevai anche un pezzo di pane dalla madia e disposi tutto sul tavolo per la cena. Stava facendosi sempre più buio: accesi la lampada sopra il tavolo. Volevo leggere un poco prima di mangiare, mentre la minestra si scaldava. Dallo scaffale presi la Bibbia del nonno. Era l'unico libro che possedevo; ma il nonno diceva che quello era il libro dei libri: bastava per conoscere tutto ciò che c'è da sapere. Lo posai aperto sul tavolo. In quel momento preciso si scatenò il temporale. Scrosci di pioggia e turbini di vento investirono la fattoria. Io non avevo alcun timore. La casa era solida, era lì da più di cent'anni e i miei vecchi sapevano come costruirle, le case. In mezzo al frastuono del temporale sentivo però il rumore di una finestra che sbatteva. Mi ricordai di aver lasciato socchiusa quella della mia camera, al mattino, per dare aria. Salii di corsa le scale. Non volevo che la tormenta scardinasse l'infisso. Mentre richiudevo le imposte, lottando contro il vento fortissimo, distinsi tra i molti rumori consueti del temporale un sibilo lamentoso, che sembrava seguitare ancora all'interno della stanza, dopo ch

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I vecchi Borghi

Recentemente ho comprato il libro di I. Insolera "L'Italia fascista nelle fotografie dell'Istituto Luce" Parla degli scempi architettonici fatti da Mussolini su alcune parti di Roma. Mi sono commossa e uno alla volta mi sono venuti in mente i racconti di mia nonna sulla bellezza dei Borghi dove lei abitava da giovane. Li ho raccolti in un racconto intitolato "Ivecchi Borghi".

Questo è l'inizio: Verso la fine degli anni trenta il piccone mussoliniano si abbatté sulla famosa spina che formava i due vecchi borghi. Borgo Nuovo ovo e Borgo Vecchio. Da Piazza Pia. la lunga sequenza di palazzi, alcuni dei quali veri capolavori architettonici, correva dritta verso Piazza S. Pietro formando le due vie che sboccavano nella bellissima Piazza Rusticucci contornata da vecchi palazzi color ocra e frequentata da turisti e soprattutto dai residenti, i "borghiciani". Piazza Rusticucci era un gioiello, splendido per l'armonia in cui si componeva la varietà di volumi, superfici e colori. Sempre molto animata era la degna anticamera di S. Pietro sulla quale direttamente si apriva. Vi sostavano in permanenza le carrozzelle a cavallo guidate da vetturini
dalla lingua svelta, bonaccioni e scanzonati. Il ristorante Europeo che godeva meritatamente la fama di garantire una cucina ricca e rigorosamente romanesca,
era il luogo dove i borghiciani festeggiavano con memorabili pranzi feste religiose
e avvenimenti privati. Caffè e negozi di articoli religiosi si affacciavano discretamente e gioiosamente sulla piazza.
Il "genio" di Mussolini, abbattendo la spina, non compì soltanto uno scempio architettonico e urbanistico, ma anche uno scempio umano, disperdendo una comunità civile complessa ma aggregata, portatrice di pregiudizi ma anche di valori, ricca di molte virtù e di qualche vizio. Una comunità, comunque, molto vitale. I borghiciani si conoscevano tutti, direttamente o indirettamente. Erano capaci di grandi gesti di solidarietà ma non erano esenti da invidie

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Poteva essere e non è

Poteva essere e invece non c'è, altro tempo assieme, altro tempo a scrutarci negl'occhi chiari mentre ti accarezzavo le palpebre infastidendoti. Mi piaceva molto toccare quelle parti di te che forse nessuno le avrebbe trovate particolarmente attraenti; i denti, le palpebre, le ciglia, la pancia. Mi piaceva la sensazione che provavo, che si prova toccando il velluto, che dalle mani, dai polpastrelli mi pervadeva sino ad arrivare alla testa, annebbiandomi la ragione, per poi giungere lì, nella palude del sesso. Poteva essere ancora.
Non ci siamo più capiti, più dedicati, più tollerati. Potevamo condividere, anche il silenzio della statistica o dell'arte interessandoci l'un all'altro, dandoci ciò che chiedevamo solo per sentirci ancora amati. Ed è così che ci siamo sentiti entrambi: Non amati. Oggi "Non è", è come ti chiami nel mio cellulare.
Rileggo nei tuoi versi come mi vedevi più di un anno fa. Non bella, probabilmente non simpatica, non signorina, non serena ma di sicuro, non inibita. Felice di quel momento trascorso assieme. Non ci conosevamo neanche allora, ma eri la persona più bella che in quel momento conoscessi. Sotto l'acqua che scorreva, fra le risa che intervallavano getti freddi e getti caldi, il tuo sorriso me lo ricordo ancora. Non credo che lo dimenticherò mai, ma vorrei farlo. Giusto solo per sopravvivere mentre tu vai avanti.
"Se non ridi lascia stare", dicevi. Forse è per quello che ci siamo lasciati, ma sai... non credo che si possa ridere sempre nella vita, perderebbe quella magia che poi ti ha fatto scrivere di me, quella magia che ti ha fatto accorgere della mia voglia di te in quel giorno estivo.
Sarebbe bastato tenerci per mano più spesso, in modo tale che forse, dico forse, sarebbe stato più difficile districarsi le dita. Tornerai? Non è persa la speranza.
A volte mi chiedo se a te capita di sentire ancora la mia pelle sotto le dita...
il mio odore, la mia mancanza. Io non credo ma sono femmina per cui mi concedo i

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   0 commenti     di: elena


Eliot

Eliot



“Mi passi il sale, per favore”, chiese Eliot con la dovuta educazione.
Dalla terrazza, sul davanti, si godeva la vista più orrenda di tutta Clatskanie, in Oregon. Dietro, v’era invece un vecchio cortile. Era maggio ed Eliot passava la maggior parte delle sue giornate in quel cortile a sbucciarsi le ginocchia cadendo dalla bicicletta regalatagli da suo padre per il dodicesimo compleanno.
Il padre restò in silenzio e non si mosse. Continuò a trangugiare quel pezzo di carne dura e sottile.
Erika a quel punto prese la saliera che stava davanti il bicchiere di suo marito e senza farsi troppo notare la passò a suo figlio Eliot. Si cenava in silenzio, in modo da poter sentire il rumore metallico delle forchette che graffiano il piatto. Non appena Jack finì di mangiare, Erika, benché avesse ancora il piatto pieno, si alzò. Si avviò in cucinino per prendere la frutta. erano avanzate solo due mele rosse. Jack tuffò la mano callosa e grassoccia nel vassoio e scelse la più rossa, poi con violenza cominciò a morderne pezzi. Erika si sedette al tavolo e riprese a mangiare. Ingoiato l’ultimo pezzo di carne Eliot domandò a sua madre: “ Posso andare al bagno?”. Acconsentì con un semplice cenno di testa. Una volta che si sentì il rumore della porta del bagno, Jack s’alzò e si avvicinò alla moglie che terminava ciò che aveva nel piatto.
“Voglio scopare”. Disse con alito puzzolente di vino.
Erika rimase in silenzio facendo finta di non aver sentito nulla. La fece alzare dalla sedia con la forza e cominciò a toccarla tutta.
Eliot finito di fare pipi tirò l’acqua e cominciò a lavarsi le mani. Richiamato dalle urla di sua madre con le mani gocciolanti corse per tutto il corridoio, si buttò su suo padre e lo prese a calci nel culo con tutta la forza che un ragazzino potesse avere. Per tutta risposta il padre si girò verso di lui, e gli piazzò un pugno sul naso. Rovinò a terra e non si rialzò.
?

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   7 commenti     di: Gianni Carretta


Aisha 4 lettera di Cesca

Ed eccoci qui, stretti stretti, in un buffo divano letto in casa di Tonio, Jil sta dormendo, e come al solito russa!
Sembrerà strano, ma la cosa non mi disturba più di tanto, mi piace quando il suo russare mi sveglia, e mi da modo di guardarlo così, disarmato, abbandonato sul mio corpo, e allora lo accarezzo piano piano, per non svegliarlo, e mi godo questi momenti in cui, il mio uomo è veramente tutto mio, completamente affidato al mio controllo, alla mia protezione, al mio amore.
Sì credo che possa definirlo amore, se il pensare a lui quando non lo tengo vicino, mi fa stringere lo stomaco, e guardarlo, quando è al mio fianco, mi aumenta i battiti del cuore.
Ora che dorme fra le mie braccia, lo vedo per quello che è realmente, un bambino, sì un bambino nascosto nel corpo di un uomo grande (non posso dire vekkio altrimenti mi mette il muso per una settimana), un bambino che da sveglio misura ogni suo gesto, ogni sua parola, per non turbare gli equilibri della nostra vita; sta attento a quel che mi dice e talvolta mi parla come se io fossi ancora una sua alunna, una ragazzina del liceo, bramosa di vita ma spaventata dalla vita stessa.
Ed io rido, quando mi fa le coccole, e la gioia di averlo accanto mi commuove, e lo abbraccio, e lo stringo quasi a fargli male, perché Jil è mio, e lo sguardo da cerbiatto col quale mi osserva, ogni volta, mi convince della sua sincerità, della sua passione, del suo infinito amore; ed allora gli sto preparando un regalo, o meglio una sorpresa; ho smesso da più di tre mesi di prendere la pillola!
Una volta Jil mi scrisse ”succeda quel che deve succedere”. Ecco, io credo che sia ora che succeda qualcosa, che io celebri il mio, il nostro amore, con la sacralizzazione della maternità.
Ho tanti dubbi, è vero, però sono quasi convinta che regalare al mondo un figlio mio e di Jil, sia il modo migliore per esternare il mio amore per lui, il modo migliore per dare al mio uomo, al mio compagno, la conti

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   3 commenti     di: luigi deluca


Uno sguardo

Camminavo tra i vicoli di questa grigia città, in cui la gente rincorre affannosamente il proprio tempo che fugge. I ciottolo scuri della strada e le mura indistintamente rovinate dal tempo, facevano da contorno ai miei passi lenti. Un timido sole si nascondeva tra nuvole scure che riempivano il cielo. I miei pensieri si susseguivano veloci, dentro me un mix di sensazioni e di emozioni creavano un profondo senso di smarrimento che toccava la mia anima, colorandola di quel grigio che mi circondava. Altre persone mi sfioravano, ma passavano senza che potessi percepire la loro presenza: tutto era indistintamente opaco e privo di colore in quella giornata. Oramai i miei occhi guardavano un punto lontano, senza che nulla attorno a me sembrasse reale, senza che nulla mi trasmettesse emozioni. Tra i vivoli cercavo una risposta al mio essere in una ansiosa ricerca, ma tutto ciò che avevo attorno era smarrimento e malinconia.
Camminavo e un cagnolino mi si avvicinò: "Ciao piccolo amico, anche tu solo? anche tu rincorri qualcosa in questa città?" Poi sentii una voce "Boby...?" il cagnolino smise di girarmi intorno ed andò verso una ragazza. Lei lo accarezzò poi mi guardò e sorrise, in quel momento i suoi occhi entrarono dentro di me e scacciarono quel grigiore che i miei giorni avevano creato e perso in quello sguardo io vidi noi due: le nostre parole, le nostre lacrime, i momenti insieme, le notti sotto le stelle a far l'amore, le nostre mani strette, le lacrime che rigano il tuo viso, il tuo regalo di Natale, gli scherzi con la neve e le estati al mare... era già tutto in noi, ma le nuvole grigie iniviarono a far cadere su noi gocce di pioggia gelida ed entrambi tornammo a tuffarci nell'indifferenza del tutto, soli e persi per sempre.

   4 commenti     di: Massimo G.


Antica-mente

Era una scala senza tempo quella che Gaia si apprestava a salire. nessuno era più entrato in quella casa antica, umida, da molti ritenuta "vecchia". Vecchia come lei. Eppure il suo nome era... giovane, il suo viso morbido e vellutato. le labbra rosee... giovane e affascinante.. Il completo, indossato di morbido e stropicciato lino, era una sua creazione, come tante altre che in quel caldo luglio riempivano le migliori boutique. Le sue creazioni, come neonati partoriti con grande dolore, spesso dopo notti insonni... insonni e colmi di lacrime come una notte senza amore. E ricordò... quella casa antica... le sue notti senza amore... le notti di sua madre, senza amore... quella casa senza amore...

   7 commenti     di: soffice neve



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