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Racconti sulla disabilità

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Il passato ritorna

Dodici anni prima

Era un tiepido pomeriggio di fine estate. Il sole s'apprestava a nascondersi dietro i tetti spioventi delle case mentre l'afa irrespirabile, che durante il giorno aveva soffocato l'intera città, allentava la sua morsa, lasciando filtrare qualche lieve folata di aria più fresca attraverso la sua cappa opprimente.
Mancavano pochi minuti alle sette di sera e la cena non sarebbe stata pronta prima di un ora.
Alba spense la televisione, dove fino a poco prima aveva assistito ad una puntata dei suoi cartoni preferiti, e raggiunse la mamma in cucina.
Stava mondando le foglie dell'insalata che avrebbero consumato per cena assieme ad una fettina di carne.
“Mamma, posso scendere giù in cortile a giocare a palla assieme a Martina? ”, le domandò rivolgendole uno sguardo furbetto, infilandosi ai piedi le sue scarpe da ginnastica, certa che lei non le avrebbe negato il permesso di raggiungere la sua amichetta.
“Va bene, ma non fare più tardi delle otto... e mi raccomando, cerca di non sudare troppo, altrimenti rischi d'ammalarti”, si raccomandò come tutte le volte in cui scendeva giù nel cortile del palazzo per trascorrere un oretta di gioco assieme a Martina, la bambina che abitava nell'appartamento accanto al loro e che frequentava la sua stessa classe di seconda media.
“Non preoccuparti, mamma. Non tarderò nemmeno un secondo e ti prometto che non prenderò freddo”, la rassicurò anche se fuori c'erano più di ventisette gradi e si sudava anche solo stando fermi, mentre si chiudeva la porta dell'appartamento alle spalle e correva giù per le scale dell'androne andando incontro a Martina.

“Allora, Alba, ti decidi o no a passarmi quella palla? ”. Alba sbirciò l'orologio che indossava al polso destro, rendendosi conto che mancavano meno di cinque minuti all'ora che aveva concordato con la madre per il rientro.
“Va bene, però facciamo solo un altro paio di tiri. Tra poco devo salire a casa”, rispose a Martina

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   3 commenti     di: Eleonora Rossi


II Pepeu

Il Pepeu è morto il 24 settembre del 1987, ma il corpo è stato ritrovato solo tre giorni dopo. Io c'ero, perciò so come sono andate le cose.
Il Pepeu era nato appena dopo la Grande Guerra. Da allora era sempre vissuto in paese e lo conoscevano tutti. Il suo vero nome era Giuseppe. Giuseppe Pedraschi, ma a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiamarlo così. Per quel che posso ricordare, lui è sempre stato il Pepeu. Il Pepeu e basta.
Che fosse un po' suonato lo si era capito da subito. Era nato con il testone pieno d'acqua e ha sempre avuto lo sguardo un po' perso. Mica era facile capire da che parte guardava. Non è che avesse proprio gli occhi storti, ma sembrava che guardasse sempre dalla parte sbagliata. Voglio dire: se ti parlava, si guardava le scarpe, se tutti avevano il naso all'insù per ammirare i fuochi d'artificio del 15 agosto, lui osservava il fondo della valle. Se passava una di quelle macchine sportive quando c'era la gara in salita, lui se ne stava a fissarsi le unghie per ore. Non ci potevi fare niente, era fatto così.
A scuola faceva fatica. Non capiva quasi niente e poi c'è andato poco. Lo hanno bocciato due volte e non credo abbia mai finito le elementari. Quando ha cominciato a lavorare avrà avuto sì e no dieci anni. Sua madre era vecchia e non navigavano certo nell'oro. Di suo padre non so nulla, credo sia morto prima che lui nascesse. Ha sempre vissuto in quella casetta a due piani, con la facciata grezza, dietro la vecchia fornace. Anche quando sua madre è morta è rimasto lì. Non si è mai spostato, che, volendo, avrebbe anche potuto farlo, con i soldi dell'assicurazione. No, lui è rimasto lì, anche se aveva il bagno in cortile e la casa era troppo grande per una persona sola.
Il Pepeu parlava poco, anche da ragazzo. Non aveva amici e se ne stava quasi sempre per conto suo a fumare sigarette che si faceva da solo. Si fumava di tutto. Paglia, camomilla, tabacco, cicoria. Magari si fumava pure la droga, ma quest

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   2 commenti     di: Marco Ant


Pioggia d'estate

“ Fabio! Fabio! Svegliati. Sono le sette e sei in ritardo come al solito! Possibile che tu non riesca mai ad alzarti per tempo? E finisce sempre che bisogna fare la corsa per arrivare al lavoro? Sembra proprio che tu e il letto siate una cosa sola! Allora? Guarda che lo bevo tutto io il caffè, se non ti alzi immediatamente”.
“ Lasciami dormire ancora un po’” pensavo e non avevo forza né per aprire gli occhi, né per rispondere. Volevo sognare ancora, ripensare ai colori della notte appena trascorsa.
Avevo fatto un sogno bellissimo. Era uguale al giorno in cui per la prima volta avevo indossato una maschera subacquea e varcato la soglia di quella diversa e unica dimensione immateriale che è la superficie del mare.
Il mio corpo senza peso, la trasparenza del liquido e i colori pastello del fondale, ricco di pesci e altri animali sconosciuti.
Mentre galleggiavo avevo sollevato lo sguardo e visto mio padre venirmi incontro camminando lungo una strada bianca. Mi aveva detto: “ guarda come sei trascurato! Prometti che domattina farai la barba e taglierai i capelli! “
Io gli avevo sorriso e lui mi aveva teso la mano sollevandomi, e mano nella mano avevamo camminato insieme, parlando della pioggia che quell’estate era mancata, rendendo arida tutta la campagna.
Poi, aveva detto: “ Quando passerai da casa, bacia la mamma da parte mia, mi raccomando! ”


“ Fabio, Fabio, sei ancora lì? ”
Mi sentivo chiamare di nuovo e mentre mi giravo verso la voce, tornavo a guardare mio padre che non c’era già più.
“ Per la miseria, ho gli occhi appiccicosi stamattina, e mi sento stanchissimo! Quasi quasi prendo un giorno di malattia e per oggi me ne rimango a letto! ”

“ Fabio, tesoro! “
“ Ok, Ok mi sto alzando” penso, ma sento che il tono di voce è cambiato; è tenero, quasi un lamento.
Un ultimo pensiero prima di sollevarmi: il ricordo di un aforisma di uno scrittore semisconosciuto, certo A. F. Blumfeld : “ Non siamo che blandi

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Angelo Storpio

Avevo solo dodici anni. Un giorno di primavera sull'auto di mia madre che ci portava a quella terribile scuola di danza. Pioveva... poco prima, in casa, avevamo avuto una discussione, io non volevo andare in quel posto pieno di ragazzini tutti uguali con i piedi storti, non volevo anch'io somigliare a una papera, ma era il suo sogno. Non aveva potuto farlo lei da ragazzina e lo desiderava per me, solita storia, sentita e risentita della madre dai sogni incompiuti da fare compiere ai figli. Danza... l'avevo tre volte a settimana, i restanti giorni canto e pianoforte, avevano assunto un maestro privato che veniva tre sere a settimana in casa mia. Tranquillità zero. Forse per questo quel giorno di primavera fu in qualche modo, tragicamente, la mia liberazione. All'improvviso le ruote sbandano, lei perde il controllo della macchina che slitta sull'asfalto reso dalla pioggia scivoloso come sapone. La macchina si ribalta e va a finire contro un palo della luce che cade e finisce su di noi. Su di me. Sulla parte passeggero, proprio sulle mie gambe. Lei sbatte la testa, sviene ed è inerme accanto a me. Il dolore delle gambe mi fa urlare fortissimo, ma lei non sente, urlo e la chiamo ma niente... non mi sente. Finisce in coma per tanti giorni, che mi sembrano interminabili, poi muore in silenzio così com'era stata per un anno. Per quell'anno io non parlo, non cammino, non camminerò mai più, non posso hanno amputato tutte e due le mie gambe. Seduta sulla mia sedia a rotelle compongo melodie al pianoforte, piccolo Chopin così come lei desiderava, piccolo Chopin senza gambe. Odiavo danzare e questa è stata la punizione divina per avere fatto arrabbiare mia madre proprio su quella macchina, l'ho uccisa è stata colpa mia, questo è il mio prezzo da pagare. Se non vuoi danzare, non avrai più le tue gambe, non sarai altro che un candido cigno storto. Questo deve aver detto Dio puntando il suo divino dito sulla mia testa. Mio padre non mi guarda più in faccia, forse mi

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Muovermi velocemente

Adesso tengo lo sfizio di fiatare, nutro una necessità colossale dentro di me di parlare in scarse parole, tale è la mia contentezza. Rispecchio, alla mia vita diretta e rifletto a ciò che ho separato proseguente il durevole tratto di strada. Proprio oggi ero in grado di uscire, andare a spiare se nel piccolo prato dietro casa sono finalmente spuntate le rose, ma non è più quel prato che desidero passeggiare. Considero, ma la mia fantasia è giovane, facoltosa di sogni e di riflessioni generosi, che non formano più in me obblighi, pronunciate lentamente da parte di espressioni desiderose. Un tempo ero presente in pensieri avvolti nel momento in cui mi sentivo diverso dagli altri. A volte ancora oggi la mia vita mostra, la stessa cosa di spedire a fan culo tutto, di indirizzare, tutte quelle persone che odiavano la consueta disabilità, della mia vita. Tenevo angoscia, osservavo il dovere di scomparire, staccarmi, di correre via, muovermi velocemente, volare in alto, allontanarmi dai loro occhi intorno a me, senza frenare neanche una volta. Invece non hai la forza di abbandonare tutto in posizione nascosta. Non puoi confezionare un passato, dove esclusivamente, sopporterebbe un deforme incubo da scordare mentre già si è vivaci. Non fila in questo modo. Nella vita inizialmente, sei debitore di logiche per mezzo di quello che costruisci. Non sopporti, senza soluzione di continuità, in base a qualcuno che sistema, le tue difficoltà. Chissà ci sarebbe forza generatrice sempre disposto ad andare subito dietro alla tua vita? Aiutarti ogni volta che ti occorre aiuto? No, nella vita non funziona così. Qualunque realtà oggettiva, segno, immaginazione, portano un valore. La vita è alla maniera di un gigantesco mosaico. È Dio, l'artista. Non compariamo noi a prendere i ritagli da tenersi attaccato congiuntamente, a stabilire cosa raffigurare. Invece non tutti sono partoriti artisti. Molti devono capire da soli in che modo dare forma al proprio futuro. Devono dar

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   0 commenti     di: giovanni barra


“Chi dona gli organi ama la vita. ”

TEMA – Premio Nicholas Green
Si commenti tale pensiero esprimendo delle riflessioni personali sul valore della solidarietà umana testimoniata anche dai genitori di
Nicholas Green.


Tutti gli esseri umani sentono l’esigenza di aiutare chi ha bisogno e chi non ha autosufficienza.
Ogni genitore si prende cura dei propri figli fin dalla nascita e dà loro l’affetto e le cure necessarie per farli crescere con salute e renderli indipendenti.
Anche da adulti ci sono spesso situazioni in cui c’è bisogno di assistenza e solidarietà. Ci sono tanti giovani che si drogano e per uscire da questa brutta esperienza hanno bisogno di affetto e solidarietà non solo della famiglia ma anche dagli altri. Anche gli anziani che spesso vivono soli hanno bisogno di affetto e solidarietà da parte di qualcuno che si occupa di loro.
Ci sono tante persone malate, alcune gravemente, che hanno costante bisogno di assistenza.
Alcune malattie sono, purtroppo, incurabili, altre invece potrebbero essere curate grazie al trapianto degli organi che sostituiscono quelli malati.
La donazione è un gesto di grande solidarietà sia da parte del donatore e sia da parte dei familiari.
Chi dona gli organi non è egoista perché guarda il futuro delle altre persone ed è contento di sapere che anche se lui non c’è più, altre persone vivono con i suoi organi..
Proprio come i genitori del piccolo Nicholas Green che nonostante il dolore per la tragedia della scomparsa del loro bimbo, hanno donato i suoi organi, dando la possibilità a persone malate, senza speranza di guarigione, di riacquistare la salute.
Mi ha colpito moltissimo il modo come è morto Nicholas:
è morto proprio mentre era in gita a Roma in Italia con i suoi genitori, ucciso nel tentativo di una rapina i genitori hanno dimostrato di non avere rabbia verso gli Italiani capendo che la causa erano alcune persone cattive
Io sono un ragazzo di 11 anni che vive sulla sedia a rotelle fin dalla nascita. Ho s

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Vigliacco!

Di certo una persona ke nn fa nulla.
Non progredisce
Se io continuassi a scrivere con il cuore
Allora sarei un dio.
Ma gia solo la mia mente basta.

Ero sulla riva del mare...
Avevo 27 anni
Conoscete il proverbio cinese?
Stavo aspettando che il cadavre del mio nemico passasse.
Avevo fatto molto
Ma nn avevo continuato.
Mi sentivo inutile..
Anzi come se niente mi appartenesse..

Ero alla fabbrica..
Avevo un vibratore in mano.
Mia moglie mi aveva costretto a comprarlo perke non volevo piu fare lamore con lei..
La mia fissazione per la spiritualita mi stava portando a incanalare energia sessuale
Per sprigiornarla in estasi.
Bob mi chiamo.
Credo volesse cazzeggiare un po perke era mio amico...
Non ci provavo il piacere di quando ero bambino a giocare.
La mia armatura era rimasta.
Mi venivano ancora le ossessioni della violenza.
Ma credo che se avrei dato un pugno.
Un pezzo della mia anima si sarebbe rotto.
Mi sarei spaccato in tanti frammenti.
Ridemmo del piu e del meno.
Non ci provavo gusto volevo piangere.
Era assurdo che un uomo che rischi consapevolmente la sua vita non riceva nulla in cambio.
Usci dalla fabbrica
Stava piovendo..
Un cumolo di prostitute mi passo davanti.
Si spostavano in branchi.
Mi inginokkiai e kiesi una cosa a dio.
Avrei superato i miei limiti
Sarei andato vicino la morte
Ma ti prego fammi trovare una strada.
Sputai in faccia a una vekkietta
E gli diedi un pugno in faccia.
Non mi facevo neanke skifo per averlo fatto..
La mente mi diceva ah si! E facile prendersela con le vekkiette perche non te la sei presa con il tuo amico! Nn ne hai il coraggio!
E un altra parte diceva
La mente vuole sempre di piu fermati con questa idiozia.
Portai il vibratore a mia moglie.
E la guardai negli occhi.
Anche questo gesto nn deriva da una cosa che fluisce.
Ma era spezzettato.
Cosi come spingi una persona perke decidi di farlo senza alcun motivo.
Usci di nuovo di casa e presi a pugni all incirca altri 2 vekkietti e u

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   3 commenti     di: gianlu3295



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