Quel pomeriggio Simonetta si era vestita alla meglio per andare alla Messa; aveva indossato un abito di lana grigio e si era ficcata in capo un cappello di paglia nero, come di consueto.
Era scesa in fretta dalla scala di casa quasi che qualcuno la potesse trattenere ed in qualche modo farla ritardare. In realtà non vi era nessuno né in casa né altrove che potesse interferire in ciò che faceva. Era vedova da una trentina d'anni ed i figlioli li aveva lontani, in altre città, del tutto impossibilitati a condividere la sua esistenza.
Era sola, di quella solitudine totale priva perfino del normale esercizio delle corde vocali che permette di emettere suoni. Infatti, la gente che aveva occasione di sentirla parlare di tanto in tanto, nei negozi o sulla strada, la riteneva ormai inguaribilmente ammalata, tanto era afona.
Era pur vero che Simonetta fosse ammalata ma non alle corde vocali; quando aveva l'occasione di una conversazione, la voce le ritornava presto alta ed argentina, straordinariamente giovane. Ma quelli erano divenuti casi rari che non bastavano a toglierle la malinconia di una vita senza voce.
Era invece malata di cuore, molto ammalata e quel giorno avrebbe preparato la valigia e l'anima perché l'indomani, per la seconda vola dopo molti ani, si sarebbe recata a Parma per un altro intervento a cuore aperto, delicato ed anche con una buona percentuale di rischio.
Si avviò sulla riva del lago; a quell'ora del tramonto ogni sera la natura le offriva qualcosa di nuovo che variava a seconda delle stagioni, dai colori del cielo e della vegetazione ora rigogliosa, ora brulla, mutando l'aspetto del bel panorama.
Era autunno e la collina al lato del castello si fece viola nell'ora della sera, così come viola erano il cielo e le acque del lago mentre l'ultimo raggio di sole batteva sui vetri delle case. Alcune vele lontane dalla riva, scivolavano pigre sulla via del ritorno e l'aria era tersa ed ancora profumava degli ultimi fiori delle aiu
"Amore è l'abbondanza emanata dal cuore, è quel surplus di emozioni, di desideri da somministrare a chi hai intorno, è come viene detto, il lusso di chi ha tanta voglia di vivere da condividerla con il mondo intero. È l'incarnazione della perfezione, di un mito perenne; non cessa mai: fortifica il cuore, matura le persone facendo sgorgare la bellezza (interiore) in ognuno di noi".
Il rompicapo stava per essere risolto.
Ancora in auto, si guardò allo specchio, lasciando venir giù quelle lacrime di ricordo. Accese la radio, cambiò stazione. Una canzone romantica. Fu interrotto da quella lieve e candida melodia. Non conosceva il testo, capiva solo la parola "forever".
Una luce si accese sul suo volto.
Impallidì. Emise un sorriso sornione.
FLU: forever loves you. Felice loves Ursula. Felice ti amerà per sempre.
La F non era solo l'iniziale del suo nome. Era tutto. Era la loro vita che si era intrecciata.
E quella frase venne detta in un momento particolare della loro vita.
Dove sancirono le loro promesse, su un diario/blog virtuale scritto e aggiornato dalla stessa amata.
Inutile spiegare la gioia che provava nell'aver capito cosa quel codice alla fine significasse.
Lo aveva messo alla prova. Lo aveva abbandonato senza una spiegazione.
Ma ora poteva riscattarsi agli occhi di tutti.
Aveva estremo bisogno di un pc e di una connessione internet.
"Amore è l'inizio di un percorso che non cessa nemmeno con la morte".
Fine undicesima parte
"Fa che non sia albanese, fa che non sia albanese!"
Furono queste le prime parole di Erjon, un diciannovenne albanese. Stava per addentare il primo pezzo di pane quando sentì il Tg della sera: "Ventiduenne ubriaco travolge mamma e figlia. Il ragazzo era alla guida di una Bmw nera quando non si accorse dell'attraversamento di Maria, impiegata postale e la figlia di soli otto anni, travolgendole a circa cento chilometri orari".
Erjon sapeva che quel tragico episodio avrebbe dato vita all'ennesima ondata di odio e disprezzo nei confronti degli stranieri, e per quelli della sua zona in particolare.
Ma lui sapeva anche che non avrebbe dovuto sentirsi toccato dalla malevolenza nei confronti degli albanesi. Infondo era in Italia da dieci anni ormai e sapeva leggere e scrivere la nuova lingua, anche meglio di molti suoi compagni di classe, fieri del loro tricolore.
Erjon arrivò in Italia in tenera età. Il suo paese, il paese delle aquile, era all'inizio di una delle crisi politiche, sociali ed economiche più dure e spietate della sua storia. Non vi era più un governo, nessuno più al timone. Le forze armate e quelle dell'ordine avevano abbandonato la loro abituale occupazione, lasciando incustodite caserme piene di armi di ogni genere. Facile per un ragazzino di dodici anni trovare una granata e farsela esplodere davanti gli occhi. O ancor più facile per un criminale trovare un Kalashnikov per rapinare la prima banca che gli capitava a tiro.
Era routine giornaliera il coprifuoco a una certa ora della sera; il paese era in mano a bande criminali. Non vi erano più leggi, a parte quella dell'occhio per occhio e dente per dente, se deve essere considerata legge.
Se, erroneamente, un neopatentato investiva un uomo, la famiglia di quest'ultimo, che aveva dimenticato ormai il buon senso, si vedeva autorizzata a vendicarsi. I ragazzi che giocavano spensierati ai lati della strada dovevano fare i conti con proiettili vaganti e macchine sfreccianti. E la sera p
L'osteria era un perfetto campionario della varia umanità del paese e così accanto al farmacista, di giorno impettito e di sera compagno di bisbocce, sedeva il salariato, rotto dalla fatica del lavoro nei campi; fianco a fianco stavano poi i cornificatori e i cornuti e spesso interpretavano entrambi i ruoli.
Benché si formassero dei gruppi, quando l'argomento di uno diventava interessante si perveniva a una formidabile compattazione e allora, fra frequenti innalzamenti di voce, risate sguaiate e moccoli ben aggiustati, la serata proseguiva come una grande festa, in una vera e propria simbiosi collettiva.
Del resto, i personaggi non mancavano, con le loro storie, in parte inventate, sì che l'impressione era di trovarsi a una corte dei miracoli.
Prendiamo il Guercio, tale Annibale Chiocchetti, ma chiamato così per via di quell'occhio che gli mancava, perso in guerra, e sostituito con una sfera di vetro non ben fissata e che ogni tanto, sporgendo eccessivamente dall'orbita, gli cadeva sul tavolo, dove saltellava fra i bicchieri e il fiasco di vino. Se non fosse bastata la menomazione a connotarlo, c'era il suo acuto spirito di osservazione: nulla e nessuno sfuggiva al suo sguardo. La circostanza non sarebbe stata una gran cosa, se non fosse stata accompagnata dai coloriti commenti che uscivano dalla sua bocca sdentata.
Né si accontentava di argute e ridanciane osservazioni, ma si divertiva a coniare nomignoli di ognuno e, quasi sempre, del tutto azzeccati.
Così l'affossatore comunale Ludovico Bianconi, il più cornuto in paese, era conosciuto da tutti, lui compreso, come Tricorno, mentre sua moglie, ninfomane emerita, era chiamata Unapertutti. Non c'era cattiveria, però, in questa esaltazione delle disgrazie e dei vizi altrui, ma solo un eterno spirito da ragazzini che con i lazzi e gli scherzi evadevano la monotona realtà quotidiana.
A volte, tuttavia, lo scherno incupiva o rattristava il soggetto preso di mira e alla fine la risata degli altri lasciava
Nonostante i tentativi della Magistratura, di preservare le famiglie dei due giovani, dalla curiosità a volte anche morbosa, dei media di ogni genere, a circa due settimane dalla loro morte, si è saputo in giro chi fossero i due ragazzi vittime di questa assurda tragedia; i loro veri nomi sono girati velocemente con effetto tam-tam e le due famiglie si sono ritrovate, nonostante il legittimo e incommensurabile dolore, a dover affrontare il fastidio della stampa impietosa.
Il nostro giornale, si distingue per il rispetto del dolore, ed offre alle famiglie coinvolte, il proprio sentito cordoglio.
Resta comunque aperta la legittima domanda dei nostri lettori:
perché un ragazzo di 17 anni e una ragazza di 15, provenienti da tranquille famiglie della media borghesia cittadina; ragazzi che, a detta dei conoscenti e dei compagni di scuola non mostravano apparenti segni di disagio o squilibrio, perché dunque, ragazzi così sono ricorsi ad una soluzione talmente drastica come appunto il suicidio?
Dato che è questa l’ipotesi più accreditata dalle risultanze delle indagini.
Il nostro giornale è disposto ad accettare la collaborazione di chiunque, conoscendo i giovani in questione, possa aiutarci a rispondere a questa dolorosa domanda
(E. M.-M. A.)
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Abbiamo ricevuto in redazione, giusto ieri, una lettera manoscritta, l’abbiamo fotocopiata e immediatamente dopo, passata alla Magistratura, poiché, se le analisi e gli accertamenti di autenticità ci daranno ragione, si tratterebbe di un documento autografo, vergato proprio dai due giovani così tragicamente scomparsi.
Solo dopo che il Magistrato ci avrà dato la necessaria autorizzazione, provvederemo, nel rispetto della dignità delle famiglie delle vittime, a renderla pubblica.
(E. M.-M. A.)
Nel corso della prima guerra mondiale si combatté molto, e duramente, anche sulle alte cime; i crinali furono contesi aspramente dai due contendenti e le difficoltà del terreno, le condizioni climatiche repentinamente mutevoli e l'alta quota determinarono perdite incalcolabili.
Sono passati tanti anni da quando il nonno mi ha lasciato ed io ero ancora bambino, ma non ho dimenticato i suoi racconti di vita, le esperienze drammatiche che lo coinvolsero in quella grande tragedia che lo videro umile alpino combattere sulle nevi eterne dell'Adamello.
Quello che mi appresto a raccontare è un episodio che al nonno, nel rammentare, provocava un'emozione così forte da riuscire a trasmetterla anche a me e che tuttora provo, per la nota dolente che lo contraddistingue.
L'anno, mi pare fosse il 1916; la guerra era già entrata nel secondo anno e le nostre speranze di una rapida vittoria erano già svanite; eravamo partiti da Mantova in otto ed ero rimasto solo io (Cavedaschi era caduto nei primi giorni, Moretti non si era più svegliato una mattina ed il freddo se l'era portato con sé; gli altri, gli altri? Sì, gli altri non mi erano sconosciuti, ma ho imparato presto che è meglio dimenticare l'amicizia per evitare la sofferenza per la perdita di un caro compagno).
Eravamo incavernati su un bastione di roccia che guardava sul ghiacciaio del Mandrone; uno spazio angusto, scavato con il piccone, vivevamo in mezzo ai nostri stessi escrementi, si mangiava ogni tanto, quando la corvé riusciva a raggiungerci; il freddo era sempre intenso e non potevi dormire più di un'ora di seguito, altrimenti ti si congelavano gli arti.
Gli austriaci erano dall'altra parte, fra le rocce fronteggianti, ad una distanza non superiore ai 200 metri, in una posizione di fatto imprendibile, perché noi avremmo dovuto uscire dalla caverna, calarci con le funi sul bordo del ghiacciaio, attraversarlo, aggirando i crepacci, e risalire il pendio per attaccare il nemico. E la stessa cosa era per
La bambina con il rumore delle campane che ogni notte segnalano il mezza notte si sveglia. Non era la prima volta che si svegliava. Ma quella sera i suoi avevano litigato ancora, ed era agitata. Si guarda attorno, quando la campane smettono di suonare sente una voce bassa, e rauca:
- Sara Sara, vieni da me. Vieni che ti farò sognare.
- Ma chi è? chiede incuriosita.
- Te la ami tua madre, vero?
- Si, la amo tanto! Papà odio, ma solo quando picchia la mamma!
- Va bene. Torna nel tuo letto adesso, e vedrai che farai un bellissimo sogno. dice ridendo.
Subito dopo aver tornato nel letto si sveglia in un cortile con della gente sparsa qua e la. Non capisce dove si trova. Ma quando sente la gente parlare di un certo defunto, si rende conto è da un funerale. Il cortile era grande. Ad un certo punto due uomini portano la defunta che praticamente era una donna anziana in pigiama che stava camminando appoggiata sulle spalle di due uomini. La bambina non sa riconoscere la faccia della donna perché ha i capelli in avanti che li coprono la faccia.
Sara non era spaventata della situazione nella quale si trovava. Era abituata perchè era già andata ai funerali dei suoi nonni. Ma non capiva perché stavolta la donna non era dentro la bara. E come mai camminava.
I due accompagnano la donna in fondo al cortile. Li, nel fondo a destra, d’avanti ad un forno marrone e bianco fatto tipo un camino, si trovano due infermiere vestite di bianco. Hanno in mano delle bottiglie riempite con della sostanza azzurra. Una volta giunti d’avanti al forno, le infermiere la mettono su una specie di (carrello) di legno. Ma prima di questo gli mettono la camicia di forza, bianca come lo è di solito. Mettendola su e legandola con delle cinture la prendono e la buttano direttamente nel forno acceso. Tutti la guardano. Sara non capisce cosa succede e cosa deve fare. Ma continua guardarla.
Ad un certo punto la donna comincia urlare. Urla ma non chiede aiuto. Il dolore lo sente e capisce che la mor
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