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Racconti drammatici

Pagine: 1234... ultimatutte

Ana- prima parte

Era notte.. la mia prima notte di lavoro. Dovevo farmi coraggio, da sola in un bosco. . ma perché coraggio?... non sono certo una paurosa, io non temo nessuno! mi sono corazzata nel breve arco della mia vita. Una corazza dura che avvolge il mio giovane corpo, dove nessun fendente può penetrare e se dovesse superare questo strato di carne, che riveste le mie ossa, non riuscirebbe a superare la mia anima.. ormai dura rivestita di diamante. "Ti pagherò bene.!." mi aveva detto il vecchio boscaiolo Andrei, al bar del paese. Il mio paese svettava su una grande montagna circondata da boschi fitti, nevicava per mesi, ma le case erano sempre calde, scaldate da capienti camini accesi tutto il giorno, perché la legna era l'unico bene che possedevamo. Andrei, boscaiolo da sempre, aveva una piccola baita nei suoi possedimenti, immersa in un fitto bosco di faggi , dove viveva, ormai da molti anni, tagliando legna e trattando con i compratori che venivano dai paesi vicini e anche dall'estero. Da mesi cercava qualcuno che lo sostituisse la notte, che vigilasse sul suo bene, perché voleva stare in città, a valle, vicino a sua moglie Adina, colpita da una malattia degenerativa. Andrei mi chiese di prendere il suo posto. Un lavoro adatto più ad un boscaiolo che ad una donna giovane ed inesperta. Ma. . da quando si era sparsa in paese la voce su ciò che mi era capitato un mese prima, tutti mi temevano. . Ero diventata una leggenda!. Come mai? dovete sapere che dopo l'ennesima lite con mio marito Auriel, ho avuto il coraggio di prenderlo per il colletto e dargliele di santa ragione, lasciandolo ferito e piangente nella piazza del paese, tra le risate dei presenti.. Una scena da saloon! Grazie a Dio sono una donna alta e robusta e mi sono potuta difendere! Eravamo sposati da solo un mese. . lui mi piaceva, anche se non era uno stinco di santo. . beveva, rubacchiava, piccoli furti.. niente di grave! "cosa sarà mai!-pensavo - meglio vivere con lui che stare in campagna co

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   2 commenti     di: antonina


Sms

Tutto sembrava ingiusto, si guardava intorno; mesto. Cosa si era costruito? A cosa andava incontro? Non lo sapeva nemmeno lui. Era seduto sul banco da lavoro; sistemato con dizionari e copie di raccolte di poesia impilate. Trascorreva le sue giornate in uno scantinato, un bugigattolo dove le pareti aprivano delle masse di aloni grigio verdi di umidità. Seduto ad una scrivania, o meglio un pianale di lavoro alto preso da un rigattiere, dove trascorreva intere giornate a scrivere poesie, riflessioni e tra una breve pausa l'altra a sfogliare i suoi passi preferiti. La casa era un lusso per chi come lui si trovava sotto il giogo dei figli, nulla tenenti e della moglie, fuoriclasse di infamia.
Non si faceva illusioni sul futuro, seppur breve che gli rimaneva; la famiglia era stata una parentesi breve nella sua esistenza. Si era abituato a questo scorrere lungo una via consolidata, ben conosciuta; fin troppo, che non aveva mai avuto cambi di direzione. Ma nella percentuale di individui che si trovava a dover valutare mestamente; ma anche con un margine di consolazione per sé stesso attraverso un giudizio veritiero; arrivava ad una imparziale ed inequivocabile conclusione che, la realtà difficilmente si poteva cambiare; i casi in cui una persona poteva avere una svolta nella vita erano una rarità.
Si era abbarbicato su una torre solitaria, non chiedendo carità o partecipazione altrui alla disgrazia che gli era piombata addosso. Aveva un dono, però, che aveva reso tutto questo meno gravoso, ed ogni giorno ringraziava il fato che si era potuto servire della materia poetica per giungere alla soluzione di problemi con maggiore giudizio, impeto; e valutare gli insuccessi, come i fatti spiacevoli di un'esistenza grama attraverso la materia letteraria, mediandoli come sua fonte, personale, unica ed intoccabile di ispirazione.
Da ragazzo evitava la vacuità di pensiero, straniarsi divenne un recesso nascosto, da seppellire. Ma la cura al veleno di una intensa lotta qu

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   8 commenti     di: Paola


Il cavaliere e il fuoco

Trentaduesimo capitolo

"Il giorno declinava.
Sullo sfondo tenue del tramonto Edward, immagine stagliata contro il sole morente, galoppava senza sosta. Incerto sul dal farsi, alla ricerca sfrenata del coraggio per portare a termine il suo ingrato compito. Non vi era più nessuno a confortarlo, sussurrando sagge parole alle sue orecchie, specie ora che anche Margaret lo aveva lasciato. Lei di certo non avrebbe approvato, ma sarebbe stata in grado di trovare la migliore soluzione per uscirne.
Edward dopotutto non aveva nulla da perdere, eccetto l'onore che, purtroppo, deteneva un posto troppo alto fra i suoi principi.
Gli risuonavano ancora in mente le parole di Karl, colui che un tempo aveva definito grande amico: "Non voglio passi falsi; c'è in gioco la tua vita!"
Cessò di riflettere e prese una decisione; ne approfittò, per evitare che la risolutezza appena nata in lui non si dileguasse col tempo sprecato.
Di scatto voltò il cavallo nella direzione opposta, dirigendosi verso l'antica rimessa di casa Dyser. L'edificio, ancora in buono stato, era disabitato da anni. Il vento scuoteva gli alberi le cui ombre si allungavano fino a mescolarsi con le pareti della vecchia casa.
Edward smontò di sella; annusò l'aria come a verificare la presenza del pericolo: era necessario che non vi fosse nessuno, eccetto naturalmente... Non gli andava di pensarci; avrebbe compiuto quel gesto con assoluto distacco, senza pensarci, evitando l'insorgere di ripensamenti o rimorsi, con la consapevolezza di chi è vittima di un ricatto e conosce l'unico modo per venirne fuori pulito.
Con estrema cautela si avvicinò al portone di legno, consumato dalla poggia. Ne afferrò la maniglia e spinse. Non vi fu cigolio; qualcuno aveva da poco oliato i cardini, situazione quanto mai inaspettata per un posto deserto come quello.
Silenzioso varcò l'uscio, consapevole di cosa lo attendeva, fremente e tuttavia composto, impassibile a dispetto delle emozioni che lo scuotevano. Guardando

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   2 commenti     di: Marta Fanello


L'americano

Così all’improvviso come se ne era andato, altrettanto inaspettatamente Cosimo Gasparini riapparve in paese, uno dei primi giorni di agosto del 1950, dopo ben 15 anni di assenza.
Scese dall’autobus, ritirò dal bagagliaio la valigia e si guardò intorno: nulla sembrava cambiato. Stava respirando a pieni polmoni l’aria umida, olezzante del putridume del vicino fiume quasi in secca, quando un’esclamazione lo fece trasalire.
- Ma sì, sei proprio tu, Cosimo! È ritornato, gente, è ritornato!
Si volse a guardare chi lo chiamava e vide un uomo in tuta da meccanico, sulla porta di un’officina da fabbro, che gli si faceva incontro. Gli sembrò che il viso non gli fosse nuovo, ma c’era qualche cosa che non quadrava in quel volto, che un tempo doveva essergli stato familiare: una benda nera infatti copriva l’occhio sinistro.
- Non mi riconosci, cavolo. Non vedi che sono io, il Guercio.
- Il Guercio?
- Ah sì, è vero che tu mi puoi ricordare con tutti e due gli occhi; uno l’ho perso quando non c’eri ed è stato in guerra. Però non puoi esserti dimenticato delle nuotate che facevamo nel Po, io nudo e tu pudico con le mutande tutte scucite.
Cosimo si portò la mano alla fronte, fissò il suo interlocutore ed esplose:
?" Ma certo! E quando andavamo a rane di notte con la lampada ad acetilene e tu riempivi il sacco e poi ti divertivi a guardare quelle che cercavano di saltar fuori? Sì, ti riconosco, sei il mio vecchio amico Annibale!
- Sei vestito come un damerino, da gran signore. Hai fatto fortuna via e io ci avrei scommesso perché, anche se non hai studiato, hai sempre avuto una mente sveglia. Senti, facciamo un salto all’osteria, che lì troviamo senz’altro qualcun altro che ti conosce, e poi, detto fra noi, questo caldo, la polvere di ferro e l’urlata mi hanno fatto venir sete.
Nell’osteria erano in pochi ma, come si suol dire, di quelli buoni, cioè tutta gente che era in paese da una vita e che, avendo già udito l’urlata

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Un cupo viaggio in autostrada

Un uomo e una donna entrano ed escono da un portone in Borgo Giannotti, poco fuori dalle mura di Lucca, la città impreziosita da un tuttora intatto nucleo medioevale. Assorti e silenziosi, i due raggiungono a turno la Lancia Ipsilon grigio metallizzata parcheggiata sotto casa. Depositano per terra borse e valigie e subito risalgono a prendere altri bagagli.
Lui si dimostra sulla sessantina e lei un sette otto anni più giovane. Sono marito e moglie, entrambi sul metro e settanta di statura, magri e assai scavati in viso, l'uno pallido, occhialuto e con pochi ciuffi grigi e desolati sulla testa, l'altra fresca di lampada abbronzante e parrucchiere. I coniugi sono scuri in volto e paiono più intenti ad una spiacevole incombenza che agli ultimi preparativi prima di partire per le vacanze estive, destinazione dolomiti.
Le operazioni proseguono per almeno una decina di minuti, causando qualche intralcio alla circolazione pedonale e, siccome con l'avvicinarsi del mezzogiorno il sole picchia duro, a furia di salire per poi ridiscendere carichi, i due si ritrovano ben presto in un bagno di sudore.
Giunto finalmente al termine dell'ultimo viaggio, l'uomo si ferma dinanzi all'auto, apre il bagagliaio e resta a lungo a fissarlo con aria meditabonda.
"Ora voglio proprio vedere dove infiliamo tutta la roba che quella si è voluta portare dietro." Sbotta infine, accentuando la parola quella.
Prende quindi a maneggiare la marea di fagotti sparsi tutto intorno, passandoli da terra al portabauli o al sedile posteriore e viceversa, spingendoli e comprimendoli mentre almanacca a mezza voce.
Poco dopo la moglie appare tenendo in mano un'ultima leggera borsetta.
"Con questo mi pare d'aver preso tutto. Intanto che tu sistemi le valigie faccio un salto alla Locanda Speck e Popone a mettere qualcosa sotto i denti e t'aspetto lì, va bene?" Dice la donna, con tipica intonazione toscana e aspirando buona parte delle c.
"Scherzi? Ti sei alzata alle 10 passate, s'è già fatto tard

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   6 commenti     di: Massimo Bianco


Il niente

Il treno correva, fuori dai finestrini tutto era diventato invisibile, il mondo sembrava fatto di mille colori, erano le stesse righe di quando fotografavo qualcosa di veloce e coloravano le mie foto.
Ero diretta al lavoro con una musica assordante negli auricolari del mio lettore cd che si confondeva col rumore del treno. Stavo ascoltando “Me and my monkey” di Robbie Williams; ascoltavo sempre quella, mi aiutava a pervadere la mia mente di fantasia e di milioni di pensieri senza alcun senso. Ero in ritardo al lavoro, come al solito, ma non me ne fregava nulla. Ero triste. Ero stata lasciata dal mio ragazzo, buttata fuori di casa e non avevo più amici perché avevo cambiato città, una città dove non conoscevo nessuno.
Non capivo neanche perché stavo andando al lavoro se non mi fregava più di nulla. Il treno si fermò. Scesi, non era la mia destinazione; era pieno di gente, ma non salivano sul treno, non capivo allora perché erano lì. Una voce dal megafono diceva che le corse erano ferme: perfetto. Non potevo andare al lavoro, chiedevo cos’era successo, perché erano tutti lì, perché tutto era fermo, nessuno mi rispondeva, nessuno mi dava retta. Oltre ad essere diventata invisibile per le persone che amavo, lo ero diventata anche per il resto del mondo. Ero diventata così insulsa, così niente. Ero sola nel mondo intero. E pensare che fino alla notte prima ero disperata, triste, depressa, il mondo mi crollava addosso. Perché ora non mi fregava più di nulla?
Intanto la folla aumentava, non si capiva più nulla. Ed erano solo le sei del mattino. Quella era la prima corsa, la stessa di ogni mattina; il treno si era fermato alla stessa fermata dov’ero ieri sera per svagare la mia mente, di solito è un posto pieno di niente, ed è ottimo per quando si ha voglia di stare da soli a pensare, ma poi avevo preso il treno e sono tornata a casa per andare incontro alla solita routine del giorno dopo. Però non ricordo niente, ma dev’essere andata così.

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Foglie al vento

Intorno a me urla, lamenti, pianti e imprecazioni. Sofferenza e dolore sul viso di questa gente che vede la morte come un angelo liberatore. Siamo tutti qui, ammassati come carne in scatola pronti ad essere eliminati. Forse siamo proprio questo per loro, dei semplici oggetti senz'anima. In questi mesi ho conosciuto la paura, la fame e il dolore. Ormai non mi importa più di nulla. Per colpa di questa pazzia ho perso tutta la mia famiglia che amavo più della mia stessa vita. Non mi è rimasto più nessuno.
Dio perchè hai permesso tutto questo! Perche hai permesso che fossimo trattati come scarto dell'umanità! Infondo anche noi siamo fatti di carne e sangue, anche noi abbiamo diritto di amare, sognare, gioire... anche noi abbiamo diritto alla vita. Tutto questo c'è stato portato via, spazzato da un vento devastante che ancora adesso non si ferma.
Noi non esistiamo e non siamo mai esistiti. Non possediamo un nome, un cognome, un età. Siamo numerati come gli articoli di un qualsiasi codice.
Mi viene da sorridere se ripenso alla storia del nostro popolo. Fin dai tempi dell'antico Egitto abbiamo subito violenze e persecuzioni senza una valida ragione. I nostri avi venivano trattati come schiavi dal potente faraone Ramses. Usati e spremuti fino all'ultimo come delle bestie.
Per non parlare dei famosi Pogrom, delle vere e proprie persecuzioni sanguinose nei confronti di tutto il popolo ebraico. Quest'ultime nacquero in Russia nella seconda metà dell'800 e si susseguirono fino ai giorni nostri facendoci vivere senza pace e senza serenità.
Odio ammetterlo, ma anche la chiesa romana nel 500 assunse un simile atteggiamento. Il papa Paolo IV emanò la bolla "Cum nimis absurdum". Questo documento prevedeva l'uso di un distintivo giallo per tutti gli ebrei e nello stesso tempo nessun medico ebreo poteva curare un cristiano. Vennero trattati come dei lebbrosi, come se avessero qualche malattia contagiosa.
La mia mente non riesce a concepire un simile accanimento n

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   1 commenti     di: ciro botta



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