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Racconti drammatici

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Il tiro scacciapensieri

Raggiunto il parco, si fermò a curiosare nel vano tentativo di riconoscere un viso amico. Si avvicino all'inferriata, la superò e gli si avvicinò lei, la sua eterna amica che come sempre implorava una sigaretta. Dopo l'ennesimo sbuffo gliela porse, lei la accese e lui le chiese se poteva fidarsi di lei. Inutile conoscere la risposta, sembrava scontata. Esordì quindi con un "Lo sai mantenere un segreto?". Lei annuì mentre con le dita pigiava lievemente vicino la sigaretta per far cadere la cenere di troppo. Continuò dicendo "Sono un mostro, sono venuto a conoscenza di una brutta novità e l'unico mio pensiero partorito è che non me ne interessa, un' indifferenza a dir poco abissale. Mi sento un mostro. È scomparso ed io sono qui con te a passare l'ennesima serata in questo luogo, a controllare la regolarità dell'evento, non che mi dispiaccia ma..." Lei gli si avvicinò e gli chiese maggiori spiegazioni che lui le diede. Indi gli rispose che come la notte cela i contorni rendendoli piatti e dello stesso colore, anche lui tentava di celare con le parole ciò che il suo sguardo invece ammetteva. Continuò "Non sei un mostro, sei solo un ragazzo con una spigliata sensibilità e il semplice fatto che tu stia qui a parlarne con me, ti rende onore e coerente con il tuo volto marcato da un percettibile dolore. E poi lo sai che so mantenere un segreto. Pensiamo a portare a termine il nostro impegno, nonostante le critiche che ci vengono rivolte". Il pallone cadde a pochi centimetri dalla loro postazione. Lei glielo porse, lui lo tirò con una ferocia, poi prese una penna e appuntò qualcosa su un foglio. Stava completando la sua missione con la stessa foga di sempre.

Fine terza parte

   2 commenti     di: Felice Scala


Il delfino che si credeva una tigre 2

Ecco è tornata.
La gola si stringe, il respiro si fa faticoso, le mani sudano. Una sensazione di oppressione sotto lo sterno, i muscoli intorno al plesso solare che si irrigidiscono. La mente ti dice che morirai presto e che quel respiro, si, proprio quel respiro, potrebbe essere l'ultimo. Paura di morire. Paura che questo corpo non respiri più. Qualcosa continua a dirti che stai per impazzire e che presto comincerai a gridare come un ossesso frasi sconnesse. La mente proietta delle immagini che si sovrappongono con la realtà circostante, in cui ci sei tu che ti rotoli vorticosamente ad un palmo da terra. Come quegli ammassi di paglia secca che fluttuano nervosamente, trasportati dal vento, in uno di quei paesaggi desertici e desolati che vediamo spesso nei film americani.
La notte ti svegli con il cuore in gola e non perché hai fatto un brutto sogno, ma perché l'incubo sta solo per cominciare; è la cara, vecchia, tachicardia. Devo stare calmo ti dici, ma di quella calma che non si può spiegare a parole. Infatti, più ti agiti nello sforzo mentale di riprendere per i capelli la situazione catastrofica, e più senti il tuo cuore battere all'impazzata in un ritmo ossessivo e tribale nel quale si sta svolgendo un sacrificio umano: il tuo! ... Bum bu bu bum bum bu bu bu bu bum... poi, improvvisamente, ti ricordi che non è il ritmo del tuo cuore impazzito, il tuo ritmo vitale primario; ma è quello del respiro. Ma si, certo, te lo aveva detto lo psicologo da cui eri in cura. Così ti sdrai sul letto e provi a respirare profondamente a intervalli regolari, coinvolgendo anche la pancia. Piano, piano cominci a calmarti, il respiro si fa meno faticoso, il cuore abbandona i ritmi frenetici, il corpo si rilassa e la mente si distende. A questo punto hai smesso di fare la guerra con te stesso e ti scappa anche da ridere, di un riso amaro e quasi rassegnato. Tutto è assurdo. Si, bastava che mi rilassassi ti ripeti, è così facile, sembra così facile. Ma in realtà

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   0 commenti     di: Meta Morfeo


Lo strazio di Anna

L'afflitto sguardo di Anna non cessava di scrutare l'irto monte sovrastante il paese. Il suo sfortunato sposo doveva essere lì, nascosto in qualche umida spelonca, in perenne fuga dall'umana giustizia.
L'altrui infamia non gli aveva lasciato scelta: sotto la pesante accusa di un omicidio mai commesso, Salvatore aveva intrapreso l'ardua via dei monti, per i quali errava ormai da più di un anno. Tale sorte crudele aveva diviso i due giovani innamorati a soli due anni di felice matrimonio, seminando ancora una volta tremendi odi, destinati a causare profonda sofferenza. Non si vedevano ormai da mesi, l'azione repressiva delle forze dell'ordine non dava tregua! La recrudescenza del banditismo aveva portato il governo ad adottare pesanti misure atte a debellare il fenomeno: aumento della pubblica forza, massiccio intervento dell'esercito, arresti finalizzati all'isolamento dei banditi, utilizzo di informatori. Gli incontri furtivi divenivano sempre più rischiosi...

Il foglietto ingiallito stava lì, fra le mani del freddo brigadiere che lo esaminava attentamente; la scrittura a stampatello diceva così:- mia adorata Anna, tra queste impervie montagne e in così penoso stato, sei tu la mia unica consolazione! Il nostro amore, la tua dolce immagine, sono le sole cose a infondermi un po' di speranza. Da mesi mi braccano come una bestia e non faccio che spostarmi continuamente... ho pensato ad un luogo sicuro per incontrarci tra due giorni all'alba: ci troveremo in località ''coro 'e monte''. Non aver paura tesoro mio! La persona a cui ho affidato questo messaggio è del tutto fidata, non avremo brutte sorprese... ti abbraccio forte e ti attendo, a breve mia dolce salvezza-. Il brigadiere posò il messaggio colmo di soddisfazione, si rivolse poi con poche parole al traditore:- ripresentatevi tra una settimana esatta per ritirare la taglia, ma badate di non farne parola con nessuno! Ora andate a consegnare il messaggio a quella donna-. Si incamminò

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   5 commenti     di: Sergio Manconi


A futura memoria

È passato ormai tanto tempo, quasi un secolo, e quei nomi incisi nella lapide sul frontale della chiesa del villaggio, a futura memoria di chi è caduto per la patria, non sono altro che lettere sconosciute ai più.
Vado spesso in quel dolce paese di montagna, ai piedi delle Dolomiti, sia per il clima mite che per il paesaggio di una bellezza indescrivibile ed un giro per le strade a curiosare la merce esposta nelle vetrine ormai è divenuto un obbligo. Il borgo, cent'anni fa invero di modeste dimensioni, si è notevolmente ampliato in forza del crescente afflusso turistico, ma le caratteristiche dei suoi abitanti sono rimaste immutate ed ancor oggi la domenica non è difficile vedere qualche coppia avviarsi alla messa nel tradizionale costume tirolese.
La chiesa, con retrostante cimitero, è nella piazza del paese e le riservo sempre una visita, per la sua innata austerità; non manco di soffermarmi davanti alla lapide e leggi oggi e leggi domani quei trenta nomi ivi impressi hanno finito per rimanermi nella mente, in particolare uno: Alfred Meister.
Perché questa preferenza? Perché è morto l'ultimo giorno della prima guerra mondiale all'età di ventidue anni.
Ho chiesto in giro se aveva ancora dei parenti, anche alla lontana, ma tutti hanno scosso il capo; poi un giorno, mentre sedevo su una panchina della piazza, ho visto il parroco uscire dalla chiesa e mi è balenata un'idea. L'ho avvicinato e accennando alla lapide gli ho chiesto se qualcuno sapeva di questo Meister. È rimasto un attimo assorto, poi mi ha pregato di seguirlo in canonica, dove ha frugato fra libroni vecchi e polverosi, trovandone alla fine uno. L'ha consultato a lungo, poi con un sorriso di compiacimento mi ha detto che ero fortunato, e nello stesso tempo sfortunato, perché Meister era un trovatello e che quindi già all'epoca non aveva parenti.
Proprio per questo i suoi effetti personali erano stati inviati alla parrocchia e probabilmente si dovevano trovare lì. Avrebbe provveduto

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Morte di un idiota

Ama guardare il tramonto. Estasi. Occhi aperti buttati là, dove l’infinito decide di colorarsi di rosso. Ama ammirarlo da quel muretto, seduto in modo scomposto, i piedi a ciondoloni. Solo. Com’è solo quell’unico punto di cielo che ha preso un riflesso quasi verdastro. Sensazioni contrastanti in quella testa enorme, coperta da molti capelli già bianchi. Felicità che perde lentamente colore, man mano che il sole va giù. Tristezza che si avvicina, che ritorna, confusa dal buio ormai vicino e dalle prime luci artificiali che cominciano ad ammiccare. Una risata dolce come l’odore di casa, una lacrima che scende nel momento in cui il sole scompare. Vanno giù insieme, ad annunciare la notte. Che renderà scuro quel mondo inscatolato da palazzi fatiscenti, quel mondo di pochi isolati che è il suo quartiere, quel mondo di cui lui fa parte, quel mondo che lo chiama “idiota”. Si alza e va verso casa, cammina come sa fare, zoppo e ciondolante. Ride quando vede un cane che piscia ad un lampione. Ride quando sente un clacson che insiste. Ride ancora davanti ad una coppia che litiga. Ride, nella sua ingenuità, cervello di bambino in un uomo di vent’anni. Non si accorge che il mondo ride di lui, al suo passaggio. Non si accorge che i ragazzi gli fanno il verso, esagerando il suo handicap in grotteschi teatrini improvvisati per strada. Non vede le ragazze, con le gonne tirate su a scoprire le gambe bellissime nelle calze di nylon.
Vivere. Per lui conta solo questo.
Ora è a casa. È seduto sul letto, la testa enorme reclinata da una parte. Sorriso dolce come una filastrocca. È gonfio di lividi. Fatti da chi gli ha regalato la vita. Lui, venuto al mondo per essere di vergogna. Si rannicchia sotto le coperte e chiude gli occhi. Si addormenta cullato dalle preghiere di sua madre, sussurrate lentamente come tenere ninnananne, e dalle bestemmie di suo padre, forti come un bicchiere di whiskey. Lo risveglierà l’alba, col suono festante dei pettirossi

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Il cubo magico

"In quanti sono?" La domanda resta senza risposta. Dall'edificio nessun cenno, l'appello ad arrendersi era caduto nel vuoto, dopo un breve silenzio echeggiarono numerosi colpi di arma da fuoco e un rumore di vetri in frantumi. In Piazza Savonarola non si era mai visto un simile dispiegamento di polizia. Le voci corrono e dietro le transenne la folla di curiosi era tale che gli agenti faticavano a contenerla. "Ci sono dei morti?" Nel ripostiglio, poco più di un armadio, si respira a fatica, sembra impossibile che uno spazio così angusto possa contenere due corpi. La paura fa miracoli. Le raffiche avevano lasciato il posto al silenzio interrotto solamente da grida incomprensibili e da una voce prepotente che alternava ordini a minacce. Aveva fatto appena in tempo a spingere Sara e chiudersi alle spalle il battente, a salvarli era stato il vetro della finestra che per un istante aveva riflesso l'immagine di due uomini armati che si facevano largo tra la fila in attesa. Non aveva pensato a nulla, aveva solo dato retta al suo istinto. Sara tremava e non riusciva a smettere di piangere. "Stai zitta, se ci scoprono, ci ammazzano". Per tutta risposta sentì un liquido caldo sulla gamba e l'odore acre di urina, Sara tentò di giustificarsi, Filippo la strinse ancora più forte ripetendole di tacere. Le labbra erano talmente vicine che le parole sembravano sbatterci contro. Adesso sentiva quel corpo aderire al suo, la paura non gli impediva di provare emozioni sempre più forti. Il buio era totale, non c'era spazio per nessun movimento, era difficile anche respirare, l'aria era poca e la polvere accumulatasi negli anni non aveva apprezzato quell'intrusione. Il forte odore di urina era l'unico segno vitale, qualcosa cui aggrapparsi per continuare a sentirsi vivi. Ogni rumore anche il più piccolo trasformava la paura in terrore e il silenzio non migliorava le cose. Si sforzò di essere razionale, doveva rimanere concentrato, lucido, se voleva salvarsi, doveva ragionare, dove

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   1 commenti     di: Ivan


Cinqant'anni

Columbia (SC), 07/01/1999
Mi chiamo Robert Life, nato nei pressi di Fulton St., Columbia nel South Carolina, l'8 Gennaio 1949. Mio padre morì quando avevo sei anni, fu colpito involontariamente da un proiettile vagante durante una sparatoria. Faceva il macellaio. Mia madre non faceva un cazzo oltre a ciò che fanno tutte le madri. Da bambino mi piaceva...
Oh, al diavolo. Sono Robert Life e scrivo questa lettera come ultimo atto di un qualche cosa di meraviglioso. A dir poco. Sono passati cinquant'anni e guardandomi alle spalle, oggi, noto qualcosa che è sempre sfuggito alla mia mente, al mio cuore. Qualcosa che solo gli uomini i quali si trovano attualmente nella mia stessa situazione, possono notare. Proprio ora che dinanzi a me scorgo il buio, la luce entra di prepotenza nella mia testa. E ricordo tutto. Ricordo il mio primo regalo di Natale, uno dei primi, una chitarra. Non potrò mai dimenticare la mia felicità e le mie lacrime ed il sorriso di mio padre. Ricordo il primo giorno di scuola, tra pianti e urla, mi mancava il mio papà, quasi come se già sapessi che dopo quel giorno non l'avrei più rivisto. Ho vissuto nella merda e con astuzia sono sopravvissuto fino ad oggi. Ho sempre guardato le mie tasche, ragguagliato mia madre, difeso il mio fratellino e mangiato quello che c'era. E ricordo quando attraversavo quei bui e stretti vicoli, osservato anche dal cane randagio. E piansi, piansi per la scomparsa di colui che per sei anni mi ha amato, difeso, addestrato. Ma nel South Carolina non c'è tempo per piangere. Nella mia vita non c'era tempo per piangere.
Non scordo il mio primo lavoro. Ero un fottuto lustrascarpe come quei negri figli di puttana. Ero il miglior lustrascarpe del Sud. Lustravo signori, ricchi, mafiosi. Era un lavoro di merda, ma mia madre era lì, povera ed indifesa, con due figli da sfamare anche con un dollaro a settimana. Li ricordo tutti quegli stronzi: Vincent Langella, Sonny Cady, Johnny "la roccia" Corrado, Michael Winnfi

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   1 commenti     di: Claudio Morgese



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