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Racconti gialli

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All'opera non si muore mai di noia

Dimmi come scrivi
e ti dirò chi sei.








"Neeessun dooorma, neeessun dooorma
Tuu pure, o priiincipeeessa,
Neella tua freeedda staaanza
Guaaardi le steeelle che tremanooo
D'amooore e diiisperaaanzaaa!
Maa il mio mistero e chiiuuuso in meee,
Il nome mio nessun sapraaa!
No, no, suuulla tua booocca lo dirò,
Quando la luce splenderà!
Ed il mio baaacio sciooglierà
Il siilenzio che tiii fa miiia!"



La sera del 5 dicembre, al Teatro Regio di Parma, uno dei numerosi atti d'amore di Maria Luigia verso la città, di fronte ad un uditorio delle grandi occasioni, si stava rappresentando La Turandot. L'immortale opera che Puccini non aveva mai portato a termine. E condotta a compimento, senza molta convinzione, da Franco Alfano. Una serata speciale. Presenti tutte le autorità più autorevoli e la crème della crème della società bene. Megaricchi provenienti da ogni parte del Paese. Membri del governo e imprenditori di gran stazza erano sbarcati dai loro jet, poche ore prima, all'aeroporto internazionale della simpatica città emiliana: Il Giuseppe Verdi. Critici e melomani si erano scapicollati da ogni dove. E, last but not least, un loggione da far tremare le vene ai polsi alle più audaci e dotate ugole del globo conosciuto stava accalcato in religioso silenzio. Pronto ad intercettare il minimo errore, la più impercettibile distrazione. E scatenare tutta la sua irruenta passione contro il malcapitato reo. L'intero incasso sarebbe stato devoluto in beneficenza. Eravamo ormai arrivati al terzo atto. Il tenore Arturo Leonida Borrelli era impegnato, con la solita consumata maestria, a offrire, se mai ve ne fosse stato bisogno, ulteriore saggio delle sue rinomate e celebrate qualità canore. Stava per terminare il celeberrimo Nessun Dorma che avrebbe mandato a dormire, di lì a poco, felici e appagati, tutti i presenti.

"Dilegua, o notte!
Tramontaaate, stelle, tramontaaate, steeelle!
All'alba viiincerooo, vincerooo,

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La morte è il mio mestiere

La morte è il mio mestiere. Sono cresciuto tra queste quattro mura, e la mia mente anno dopo anno si è abituata al mio stile di vita. Ho esattamente trent'anni, compiuti da una settimana. I miei capelli sono neri, i miei occhi verdi, amo il mio cane e la mia casa, non ho una famiglia, non sono mai stato capace di stare con qualcuno. I miei genitori sono periti in un incendio parecchi anni fa, non ho fratelli né sorelle. Ho cominciato a fare il mio lavoro esattamente quindici anni or sono. Sono molto ricercato per il ruolo che ricopro, amo il mio soprannome e ciò che svolgo.
Ah, a proposito... il mio soprannome è Lo Stampatore, e di mestiere faccio il killer.
Quella notte mi era sembrata interminabile. Avevo contato le righe sul muro almeno una decina di volte prima che il telefono emettesse il suo squillo.
Fissai la cornetta nera e l'alzai l'istante dopo.
"Sì?"
"Ho un lavoro per lei", mi disse la voce tremante.
"L'ascolto."
"C'è una casa, vicino al bosco. È isolata. Ci vive una coppia di vecchi."
"Vecchi quanto?"
"Sull'ottantina."
Attesi.
"Li deve uccidere", mi disse.
Annuii lievemente.
"Perché?"
La voce esitò.
"Non posso dirglielo."
Sorrisi, e i miei denti bianchi risaltarono tra le labbra carnose, quasi porpora.
"È la prassi."
Ma dall'altra parte non vi fu rimando.
"Se mi ha chiamato saprà anche come lavoro. Devo lasciare lo stampo. Devono pagare per i loro peccati."
Il mio interlocutore esitò. In quell'istante capii che stava ansimando, indeciso se andare avanti o fermarsi in tempo.
"Lui abusava di me; la moglie lo sapeva e non ha mai detto niente."
Esitai nel rispondere.
"Va bene."
Il ragazzo all'altro capo del telefono non disse nulla; e percepii in quel silenzio, la paura.
"Se non è convinto possiamo lasciar perdere."
"No!" aveva esclamato con ferma decisione.
Fu allora che sembrava stessi dialogando con un amico di vecchia data, passando direttamente al tu.
"Non dovrest

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   14 commenti     di: Roberta P.


Gregorio Santi, professione divorzista

Gregorio Santi attendeva da quasi due ore, nascosto sul tetto di fronte al Palazzo della Regione, anchilosato per l'immobilità forzata. Non era una mattinata fredda per essere fine novembre, però per evitare impacci indossava abiti leggeri e il vento lo intirizziva.
Sapeva che l'assessore regionale Tartaglia non poteva mancare, perchè in quei giorni si decideva l'approvazione del piano edilizio a cui si dedicava da anni, una grossa speculazione contestatissima dagli ambientalisti e da un'ampia fetta dell'opinione pubblica. L'operazione muoveva ingenti interessi e c'era chi lo accusava perfino di collusione con la 'ndrangheta, nonostante le sue recenti prese di posizione antimafia. Perciò aveva deciso di farlo saltare in aria mentre entrava nell'edificio pubblico: voleva far credere a un delitto politico di stampo mafioso.
Mancavano pochi minuti alle otto quando notò una donna a braccetto con un uomo. Perplesso per l'aria familiare della coppia, puntò il binocolo su di loro. Sì, li conosceva entrambi. Lui, Vincenzo Repetto, era un vecchio amico e non c'era nulla di strano a vederlo lì, ci lavorava, infatti, da diversi anni. Trovava semmai anomala la presenza femminile. Cosa ci faceva a cento chilometri da casa sua in compagnia di Vincenzo? Ignorava che si conoscessero. La osservò percorrere l'arteria e poi fermarsi davanti all'accesso riservato agli impiegati, baciare il partner appassionatamente e andarsene per la sua strada. Per la rabbia strinse i pugni così forte da far sbiancare le nocche e si fece sfuggire un'imprecazione assai scurrile.
Quando però, venti minuti dopo, all'imbocco della strada apparve finalmente l'auto blu, scordò ogni sofferenza e qualsivoglia fonte di distrazione e avvicinò l'indice al pulsante d'innesco.
Giunto nella piazza poco movimentata, il bersaglio scese dalla vettura alla solita altezza e da lì, mentre l'autista già si allontanava, s'avviò verso l'ingresso, districandosi come ogni mattina tra due macchine parche

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   13 commenti     di: Massimo Bianco


Tutta la vita dietro gli occhi

Non vedo partire il colpo.
C'è prima un'eco che rimbalza fra i vecchi macchinari arrugginiti e i muri scrostati e successivamente arriva il dolore. Dapprima è come una puntura di spillo ma poi, ad ogni respiro, diviene sempre più forte, fino a che è come se qualcuno mi avesse infilzato lo stomaco con un attizzatoio rovente.
Ha buona mira quel bastardo.
Faccio qualche passo scomposto in avanti, ed ogni mezzo metro mi scappa un rantolo sporco di sangue. Ne ho la bocca piena: ruggine e fiato colloso e freddo sudore salato.
Arrivo ad un muro che fa angolo col corridoio scoperto nel quale ero prima e lo supero, cercando un qualche tipo di protezione.
Finalmente mi arrischio a guardare dove sono stato colpito. Dieci centimetri più in alto e il proiettile mi avrebbe sfondato il cuore uccidendomi sul colpo. Dieci centimetri più in basso e sarebbe saltata la mia arteria femorale e io sarei morto non proprio sul colpo ma quasi. Invece così morirò lo stesso, solo che ci vorrà più tempo. E non capisco neppure io il motivo, ma mi sembra buffo.
Nella destra stringo ancora la pistola. Non che mi serva a nulla ora, ma la impugno con entrambe le mani e faccio fuoco davanti a me, a ventaglio. Due. Tre. Otto volte.
Clic.
Finisco i colpi.
Ho ancora l'arma nelle braccia tese quando mi colpisce di nuovo. Stavolta vedo il lampo e sento il crepitio dell'esplosione ma non è proprio possibile scansare il proiettile.
Mi colpisce la spalla spezzandomi la clavicola e io grido e grido ancora ma c'è più rabbia che dolore nel mio urlo.
Che cazzo volevo fare? Vendere cara la pelle? Ma che stronzata da eroe buono.
Il colpo successivo mi buca la caviglia da parte a parte ed è come se qualcuno avesse spento un interruttore. Io cerco di gridare ancora ma dalla bocca non esce che un soffio, una specie di sibilo, mentre cominciano a mancarmi le forze: mi cade la pistola e scivolo verso terra, spalle al muro, come una fisarmonica vuota.
Fa un male fottuto. Ma non quanto pensavo

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Girotondo d'amore e di morte

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano la 6 e la sua camera da letto era inondata dalla luce dorata di una nuova alba. Un colore magico che la catturava già da dieci minuti, da quando aveva aperto gli occhi. A qualunque ora fissasse il risveglio sul minuscolo orologio, si destava sempre qualche minuto prima. Era così da anni, però usava ugualmente la sveglia e da qualche giorno con un piacere segreto in più, perchè quel piccolo apparecchio col suono nuovo e romantico le era stato regalato da Enzo. Sentire tutta la melodia dall'inizio la rendeva felice, le ricordava lui, il suo ultimo amore, fresco e recente. Quello precedente era lì disteso accanto a lei che dormiva e a momenti russava: le affiorava alla mente il ricordo lontano e sbiadito di quando quella luce dorata illuminava i magici amplessi che caratterizzavano i loro giorni migliori, diventati adesso lontanissimi ed insignificanti. Come vuota e priva di senso, era diventata la sua vita, che trascinava a fatica verso traguardi destinati a svanire appena sul nascere. Non ricordava il giorno in cui era cominciata la fine, che pure doveva esserci stato e neanche di chi fosse la colpa. Era rimasto in piedi solo una sorta di rispetto reciproco e adesso con l'arrivo di Enzo, più neanche quello: oramai da una settimana era diventata la sua amante. In un mondo giusto lei sarebbe dovuta andar via da almeno un anno, lasciarlo, ma non ne aveva avuto l'animo, non riusciva ad immaginare come poteva cavarsela da solo. Rimaneva con lui un po' per pietà, ma anche per qualche bel ricordo che quel vecchio amore ormai agonizzante, ogni tanto rievocava. E così quella bella luce mattutina aveva perso ogni magia, erano solo raggi di sole, freddi, che non scaldavano il cuore. Poi però Enzo era apparso nella sua vita: l'eclissi era finita e i suoi occhi, folgorati da quel bagliore, avevano ripreso ad ammirare ed apprezzare lo splendore dell'alba.

- Anna sei sveglia? - la voce ancora impastata del m

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   6 commenti     di: ivano51


Escursione fatale

In un paesino di poche anime e tante vacche, circondato da paesaggi da favola, la mattina le valli, erano immerse nella nebbia. Era una domenica di ottobre, quando io e i miei ragazzi decidemmo di trascorrere una settimana in montagna, nel periodo in cui, il bosco, stanco del suo verde, ama screziarsi tra il rosso e il giallo. Sulla cima dei monti la prima neve e in giro, creature impegnate a vivere. Mimetizzato il capanno, dove eravamo nascosti iniziammo a studiare la natura. Ad un tiro di schioppo, la grotta dell'orso. La natura incontaminata ci offriva scenari di inaudita bellezza e con calma olimpica, ne catturavo i colori che, simili a note dell'anima, sapevo disegnare sulla tela. L'aspra bellezza del posto e il silenzioso mormorio del ruscello mi davano una calma interiore e grande rilassatezza. Avevamo appena iniziato a dipingere lo spettacolare tramonto, quando udimmo uno sparo. Lasciammo tutto e siamo corsi fuori dal capanno. La brezza disegnò alcune strisce nel blu profondo del cielo notturno. Si sentivano gli animali tutti intorno ed era impossibile distinguerli l'uno dall'altro, ed era impossibile anche solo tentare di attribuire un verso ad una figura, ad una fisionomia. Rapiti dalla curiosità iniziammo a camminare lungo su quel sentiero buio per la vegetazione ed accidentato: soltanto qualche debole raggio di luce riusciva a trapelare fra la fitta macchia di lecci e corbezzoli. Sentimmo in lontananza un fruscio di passi. Avanzammo a passi lenti, immergendoci sempre più in una natura fiabesca e ancora vergine. Un piccolo mondo dove ogni cosa pareva disposta secondo l'ordine di un abile creatore: di là un grosso ragno tesseva pazientemente la sua tela fra gli arbusti, dall'alto di un tronco contorto una ghiandaia infrangeva il silenzio con dei rauchi richiami mentre una leggera brezza accarezzava le foglie sprigionando il profumo soave dell'autunno. Talvolta il bosco infonde un senso di libertà tale da farci desiderare di trascorrere il resto della

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   0 commenti     di: maurizio


Un amore che fa male

La mia vita è un film a lungometraggio, ogni giorno entro in scena con una nuova parte da recitare. Questo copione che mi ritrovo ha delle battute non sempre uguali, né veritiere, a volte finte a volte possono sembrare vere, tutte parti che devo imparare a recitare con convinzione, ma sarà poi così? Vediamo un po'.. Questa è una storia come tante, che può sembrare bella o brutta, oppure lasciare al lettore una dolce tenerezza o amaro fastidio. Non lo so. Ciò di cui sono certa è che si tratta di una storia la cui narrazione mi ha fatto scendere le lacrime... I protagonisti della storia immaginaria sono Ilaria, Oleandro ed i genitori colpevoli a loro volta della loro figlia.
In una città del sud d'Italia, viveva una ragazza di nome Irma, che come molte sue coetanee sogna di diventare qualcuno. La sua maggiore paura è quella di finire come una compagna di scuola che, a soli sedici anni, ha dovuto abbandonare gli studi per svolgere il ruolo della baby prostituta.. Sì avete letto bene baby prostituta. Il suo timore era anche dovuto dalla presenza del compagno della madre, che ogni volta che la guardava nei suoi occhi scorgeva sensazioni libidinose, spesso le guardava il seno o il sedere, con molta soddisfazione. Irma è una ragazza per bene amava studiare, tanto da desiderare di diventare in futuro un magistrato. Questa sua voglia la spinge a frequentare poco le sue coetanee e a dedicarsi molto allo studio. Tuttavia solo una persona riesce ad entrarle nel cuore, il suo compagno di banco Oleandro, il quale condivide lo stesso sogno di diventare magistrato . I due non solo si amavano ma entrambi si aiutavano negli studi. Oleandro era bravissimo in inglese ma pessimo nella matematica. Aiutava spesso nelle traduzioni d'inglese Irma visto che lei, aveva molte difficoltà nello scritto e nella pronuncia, viceversa lei aiutava lui nella matematica. Tra loro due c'era un intesa forte ed unica, un amore costruito e proiettato verso un futuro. Parl

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   4 commenti     di: Giulia Gabbia



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