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Racconti gialli

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Noir

La micro telecamera che avevo inserito nel foro del soffitto era sprovvista di segnale audio
mi restituiva solo un video a forma circolare, estremamente grandangolare e dettagliato.
Due gambe si materializzarono davanti all'obiettivo, non potevo vedere più in alto, il flessibile che reggeva la telecamera si era incastrato in qualche punto e per quanti sforzi facessi, dovevo accontentarmi di quella visione parziale di tutta la scena. Poteva solo ruotare sul suo asse, avrei seguito gli spostamenti di quelle due gambe senza corpo, tentando di capire cosa stesse accadendo.
Erano gambe di donna, scoperte per quanto potessi vedere fino al ginocchio, lisce, le unghie dei piedi erano tinte di rosso.
La pelle sembrava tesa e i muscoli si muovevano in fretta, era probabilmente una donna giovane, a piedi nudi.
Ora erano ferme davanti ai lembi una coperta, forse un letto, rimasero immobili per un paio di minuti in quella posizione, solo qualche contrazione muscolare interrompeva quell'immobilità. Quella donna sembrava mostrare indecisione oppure stava riflettendo su qualche cosa
Di tanto in tanto arricciava le dita, sembrava uno spasmo di nervosismo, a cosa stava pensando? Quali pensieri potevano tenerla lì davanti a un letto, indecisa, titubante a riflettere? Cosa stava osservando, chi stava guardando?
Spostò all'indietro la gamba sinistra di mezzo passo e ruotò il piede destro nella direzione opposta, si allontanò in direzione di un altro locale del quale potevo solo scorgere la porta socchiusa. Le gambe si fecero largo dopo aver spinto la porta all'interno, forse di una cucina.
Passò un tempo interminabile, la registrazione dell'evento mi restituì cinquantanove secondi netti, un tempo che sembrava non finisse mai, ebbi, visto la staticità della scena, l'impressione che la telecamera si fosse guastata. Quasi due minuti, un tempo ridicolo, estremamente breve ma tutto dipende da quello che stai facendo. Se ti stanno torturando, due minuti sono un tempo intermin

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   2 commenti     di: Marco Uberti


La promessa

Mara entrò in casa tremante e a piccoli passi si diresse verso la cucina.
Fabiana e Asia asciugavano i piatti e intanto scherzavano ridendo. Mara rimase sulla porta.
Quando le due la videro si precipitarono su di lei.
Teneva le mani insanguinate strette fra loro come a proteggersi il cuore, macchiando l'impermeabile bianco che indossava.
"Dio mio, che ti è successo?"
Fabiana l'abbracciò e la sentì tremare, quindi la fece accomodare sul divano in salotto. Sul tavolino le due sorelle notarono un coltello insanguinato.
Dopo qualche minuto durante i quali cercarono di farla calmare, si fecero raccontare cosa le fosse accaduto.
"Aveva alzato la voce, e mi aveva picchiata di nuovo."
"Di nuovo?" domandò Fabiana.
Asia la fissò.
"Lasciala finire."
Mara riprese: "Ho preso la prima cosa che ho trovato e l'ho colpito."
Dopo una mezz'ora di racconto, Asia cercò di tranquillizzarla.
"Ascoltami, è stato un incidente, non volevi farlo."
"Tu lo sapevi?", domandò Fabiana con un pizzico di ribrezzo nella voce.
"Non è il momento", disse la sorella maggiore scandendo bene le parole.
Allora Fabiana si alzò, inclinò il viso e domandò: "E quando sarebbe il momento?"
"Non ora. Non vedi che è sconvolta?"
"Certo che lo è! La picchiava, tu lo sapevi e non hai fatto niente!"
"Basta!", esordì a voce alta Mara.
Le due sorelle la fissarono farsi piccola sul divano.
Sembrava stesse per scoppiare dalla collera, invece disse solo: "Dobbiamo andare alla polizia, e raccontare cos'è successo."
Asia non disse niente. Fabiana si sedette sul divano vicino alla sorella minore.
Le raccolse i capelli su una spalla, e disse: "Ora ascoltami: è di estrema importanza che quello che ci hai raccontato stasera non esca mai da questa casa."
Mara la fissò, gli occhi arrossati dal pianto.
"Non è possibile..."
"Lo so come ti senti, credimi, ma io non permetterò a nessuno di farti del male. Non doveva neanche azzardarsi a fare quello che ti ha fatto."
Mara p

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   9 commenti     di: Roberta P.


Lo chef

Dunque, vediamo un po’ che dice il ricettario: aggiungere un po’ di pepe, far evaporare un bicchiere di vino rosso robusto, preferibilmente Barolo, poi far cuocere il tutto a fuoco lento e a cottura pressoché ultimata unire due cucchiaini di cacao.
Penso proprio che verrà fuori un piatto indimenticabile.
Beh, è meglio che proceda, perché sono le 17 e Franco arriva per la cena alle 20, Franco, lui che è puntuale peggio di un cronografo svizzero. Se non trova per l’orario convenuto la tavola apparecchiata, con il piatto già servito, è capace di farmi una delle sue sceneggiate sull’importanza del rispetto dei tempi e magari anche dimenticarsi di mangiare. Eh no, perché lui deve mangiare, deve rendere onore al mio manicaretto, lui per primo.

Ora accendo la luce perché ormai è sera e quella maledetta pendola che mi ha regalato Liz segna già le 19; che sia già cotta? Meglio alzare un po’ il fuoco; dunque ho già apparecchiato la tavola, con il servizio della domenica, le posate d’argento e i bicchieri di cristallo; penso che mi riposerò un po’, magari faccio un sonnellino.

Che casino! La pendola che suona le 20 e il campanello che trilla; Franco ha spaccato ancora il secondo; nella sua precisione è di una monotonia incredibile, come i suoi romanzi gialli, dove tutto è perfetto, dove gli incastri combaciano senza sbavature.

- Caro Franco, accomodati.
- Ciao Silvio, eccomi disposto a fare da cavia per questa tua nuova passione: la culinaria, arte nobile che trasforma gli alimenti in prelibatezze per il palato. Spero che sia così anche questa sera, o no?
Che hai preparato di buono?
- Una sciocchezzuola: il capriolo in salmì.
- Caspita, e la chiami una sciocchezzuola! Dal profumo che sento direi che è un’opera d’arte, al pari di una natura morta dipinta da un grande pittore.
- Morta è morta, la capriola, perché di esemplare femmina si tratta: il regalo di un amico cacciatore di ritorno da una battuta in Tirolo. Dai, sied

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Un caso irrisolto

Sono le 5 e 53 quando squilla il telefono. Mi dico che dovrei spegnerlo di notte, ma è un luogo comune. Anche Marta si sveglia e con aria intorpidita mi guarda come al solito. È John Smith che con la voce di chi non ha chiuso occhio, con un tono concitato dall'emozione senza aspettare che proferisca verbo mi dice "L'abbiamo preso! Vieni subito".
Non credo alle mie orecchie ma era nell'aria, avevamo fatto il vuoto intorno a quell'essere spregevole e finalmente è nelle nostre mani.
Devo far in fretta ma senza rumore, non voglio svegliare tutti. Mi alzo e mi dirigo verso la cucina, preparo la caffettiera e vado in bagno.
Se c'è una cosa che Marta adora è la luminosità del bagno quindi con una terapia da shock accendo le luci dello specchio e mi proietto istantaneamente nel nuovo giorno. Mi lavo la faccia e cado nel gioco dello specchio. Mi osservo nei dettagli ma non trovo niente di particolare, osservo un dettaglio dell'iride e improvvisamente mi rendo conto che non si tratta di quello che realmente sto cercando. Allora in fretta e furia mi asciugo il viso, torno in camera e prendo i vestiti. Marta mi sente, apre gl'occhi, mi guarda attraverso e si riaddormenta. Fuori due.
Nell'ordine: mi spoglio, sale il caffè, mi rivesto, prendo il caffè, mi rispoglio, entro in doccia, ci metto un casino, mi asciugo, deodorante, mi rivesto e vado a salutare Marta. Ancora dorme. Mi avvicino, vorrei dirle che finalmente abbiamo la soluzione del caso che ha turbato la nostra esistenza degli ultimi mesi, che è arrivato il momento di programmare una vacanza che ci permetta di uscire dalla routine a cui siamo stati nostro malgrado, vincolati. Ma Marta dorme così bene che non voglio disturbarla; allora mi avvicino, le do un bacio e dico "Buongiorno Amore Mio, io devo andare, il caffè è pronto, ci sentiamo più tardi".
"Lavati i denti prima di uscire!"
"Merda, sono in ritardo."
"C'hai messo un'ora in doccia e non hai il tempo di lavarti i denti?"
Non le rispondo ma amar

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   0 commenti     di: Alfa Alfa


IL RAPIMENTO DEL RANGER GIALLO

Fa caldo anche qui a Sabaudia. Ormai non dormo che 3-4 ore al day, ma solo se ho carburato un bel po’ di benza nel fegato. Le zanzare collezionano vittime e non si stancano mai. M’alzo, apro una birra e m’accendo una paglia. Ricollego il cervello a quanto è successo e, fuori dalla veranda, guardo degli stronzi fare jogging alle 5 di mattina. Ieri la bomba colla b, la o, e la m maiuscole: un nano si presenta in centrale e dice che hanno rapito il suo amichetto mentre giocavano ai power cosi. Lui era il ranger blu e rincorreva un gatto travestito da mostro ( o era il contrario ) ( non ricordava bene ), invece il suo amico, bimbo X, faceva il ranger giallo e aspettava informazioni nella loro super segreta base sullo scivolo di legno. Il ranger blu non riceveva più notizie dalla base e, preoccupato per un attacco alieno, interruppe l’inseguimento al mostro gatto ( o gatto mostro ) e trovò la base occupata da un gruppo di tartarughe ninja ma vuota dell’amico X. E allora lo vide salire su una punto bianca parcheggiata davanti alle poste campo da basket. E via verso il mare e poi più. Non gli abbiamo dato troppo retta; almeno finché non sono arrivati i genitori del ranger con zii, cugini, 5 nonne ( 5?? Mah?!? ) e una squadra di avvocati in tenuta da calcetto. Poi telefonate, telefonate, squilli di tromba, trombone e un rosario di “lei non sa chi sono io”, “e se non smuove anche il promontorio di San Felice la faccio sbattere a far la guardia ai sassi ecc bla ecc ecc”, e dopo gli ultimatum del questore, del vice questore, e del vice vice questore che è “un caro amico di infanzia” e “faccia conto che sia mio figlio, anche se con mio figlio non ci parlo neanche ” poi il silenzio e finalmente potemmo metterci a lavoro.
Seguirono perizie, interrogatori ai presenti, elenchi di punto bianche ma anche smart verdi e multipla rosa. Tutti avevano visto qualcosa ( anche il barista della quindici ) e il sospettato cominciava a delinearsi come un

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All'opera non si muore mai di noia

Dimmi come scrivi
e ti dirò chi sei.








"Neeessun dooorma, neeessun dooorma
Tuu pure, o priiincipeeessa,
Neella tua freeedda staaanza
Guaaardi le steeelle che tremanooo
D'amooore e diiisperaaanzaaa!
Maa il mio mistero e chiiuuuso in meee,
Il nome mio nessun sapraaa!
No, no, suuulla tua booocca lo dirò,
Quando la luce splenderà!
Ed il mio baaacio sciooglierà
Il siilenzio che tiii fa miiia!"



La sera del 5 dicembre, al Teatro Regio di Parma, uno dei numerosi atti d'amore di Maria Luigia verso la città, di fronte ad un uditorio delle grandi occasioni, si stava rappresentando La Turandot. L'immortale opera che Puccini non aveva mai portato a termine. E condotta a compimento, senza molta convinzione, da Franco Alfano. Una serata speciale. Presenti tutte le autorità più autorevoli e la crème della crème della società bene. Megaricchi provenienti da ogni parte del Paese. Membri del governo e imprenditori di gran stazza erano sbarcati dai loro jet, poche ore prima, all'aeroporto internazionale della simpatica città emiliana: Il Giuseppe Verdi. Critici e melomani si erano scapicollati da ogni dove. E, last but not least, un loggione da far tremare le vene ai polsi alle più audaci e dotate ugole del globo conosciuto stava accalcato in religioso silenzio. Pronto ad intercettare il minimo errore, la più impercettibile distrazione. E scatenare tutta la sua irruenta passione contro il malcapitato reo. L'intero incasso sarebbe stato devoluto in beneficenza. Eravamo ormai arrivati al terzo atto. Il tenore Arturo Leonida Borrelli era impegnato, con la solita consumata maestria, a offrire, se mai ve ne fosse stato bisogno, ulteriore saggio delle sue rinomate e celebrate qualità canore. Stava per terminare il celeberrimo Nessun Dorma che avrebbe mandato a dormire, di lì a poco, felici e appagati, tutti i presenti.

"Dilegua, o notte!
Tramontaaate, stelle, tramontaaate, steeelle!
All'alba viiincerooo, vincerooo,

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Redenzione

Dopo la prima volta che l'avevo visto mendicare, ero tornata in quella zona tante altre volte.
Gli avevo portato da mangiare, e qualche volta l'avevo accompagnato al bar a prendersi cappuccino e brioche.
Col tempo aveva imparato a fidarsi di me ed era arrivato a raccontarmi parti personali della sua vita precedente. Mi aveva raccontato di quello da cui scappava, degli incubi che lo tormentavano e che lo portavano ad avere ancora paura.
Adesso me ne stavo davanti ad una tomba, intenta a fissarla. Avevo pagato io la sepoltura, e in quel momento ripensai ad un istante passato.

Ce ne stavamo affacciati al balcone di pietra intenti a fissare il Po illuminato dai lampioni.
"A volte vorrei poter rimediare ai miei sbagli", mi disse.
Mi voltai verso di lui: "E non puoi?"
"Non in questo caso, no."
Annuii, mi umettai le labbra e fissai un altro punto.
"Una volta ho letto che la vita non è altro che ricerca della redenzione."
"Che significa?"
Tornai con lo sguardo sul suo viso stanco e rugoso, consumato dal tempo e dalla paura.
Infine dissi: "Che in fondo tutti vogliamo essere perdonati. Da qualcuno, per qualcosa."
Mi guardò e chinò il capo per nascondere le lacrime. Poi non disse più nulla. Capii che per il momento non voleva parlarne, ed io rispettai la sua scelta.
Infine tornai a fissare il Po, e mi accorsi che all'orizzonte si stava facendo buio.

Tornai al presente e controllai l'orologio. Diedi un ultimo saluto alla lapide ed uscii dal cimitero.
Una volta in commissariato, Lentini non esitò a fare domande.
"Dove sei stata?"
"Sono passata in un posto."
"Hai un fidanzato?"
"Sì, e se proprio lo vuoi sapere è molto più bello di te."
Lui annuì. "Gentile come sempre."
Presi posto alla mia scrivania, e risposi: "Sei tu quello che non si fa mai gli affari propri, e poi si lamenta se gli rispondono male."
Aprii il cassetto chiuso a chiave, ed estrassi un fascicolo.
"È stata da quel barbone amico suo. Il ca

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   15 commenti     di: Roberta P.



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