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Racconti gialli

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Amnesia

Mi ero risvegliato nel letto di un ospedale. Ero solo. Mi ricordo ancora il freddo, quel freddo che mi penetrava le ossa, e mi faceva tremare. E il buio che mi circondava. Un buio confuso come i miei ricordi. Si, sapevo chi ero. Non avevo perso la memoria. Ma la domanda a cui non sapevo dare una risposta era come mai mi trovassi lì, in un letto d’ospedale, solo. La mia mente era annebbiata, confusa. Qualcuno dapprima mi disse che avevo avuto un incidente in autostrada. Un semplice, banale incidente. Di quelli che capitano a decine tutti i giorni. Non so dire ora perché, ma a quella spiegazione, semplice e frettolosa non avevo mai creduto. L'ultimo ricordo che la mia mente metteva a fuoco era una lettera. Una lettera scritta a mano. Una calligrafia rotonda, un cuore disegnato in basso con un pennarello rosso. Un nome. Livia. Si, Livia la ricordo. Il suo corpo snello e le sue labbra, quelle labbra che ho sognato ininterrottamente per quattro anni, da quando la vidi per la prima volta a scuola. E ricordo anche i suoi occhi verdi, e i suoi capelli castani e quel modo di fare, sicuro, consapevole di essere desiderata, ammirata, amata da ogni persona. E io ero tra questi. In realtà non pensavo che si fosse neanche mai accorta di me. Io sono sempre stato troppo timido. Quelle rare volte che mi aveva rivolto la parola avevo fatto la figura del perfetto idiota, balbettavo, tremavo. Eppure ero certo di quello che ricordavo. Ricordavo che tenevo una sua lettera in mano. E ricordavo quel piccolo cuore rosso al fondo. Che fossi io il destinatario? Magari si era resa conto che io ero diverso dagli altri. Si, perché io la amavo. Ma non amavo di lei solo il suo aspetto fisico, attraente ed eccitante, amavo di lei tutto. La sua sicurezza. Il suo modo di essere sempre al centro dell’attenzione, era un sogno per me. Un bellissimo sogno. Ma non ricordavo solo lei. Ricordavo anche Carlo e Marco e i nostri progetti di un week end in montagna. I miei amici. Carlo detto Bongo per

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   4 commenti     di: giulio c.


L'ultimo contratto

"Vendesi mandarino rosso" l'annuncio era più che esplicito, dovevo rientrare quanto prima, ovviamente seguendo tutte le regole relativa alla sicurezza. Il giorno stesso ho interrotto le ferie in Tunisia, col primo volo ho raggiunto Catania, in autobus a Messina, traghetto e a Reggio l'Eurostar per Milano.
Sono sceso a Taranto, con un altro autobus ho raggiunto Bari e adesso sto aspettando un altro Eurostar per Milano, che non raggiungerò direttamente perché scenderò a Piacenza e quindi con un regionale arriverò finalmente a Milano. Il tempo del percorso si triplicherà ma non avrò lasciato tracce dirette del mio viaggio.
È quasi sera, pochi minuti alle diciotto, lo speaker annuncia l'arrivo del treno, è in orario, non sosterò a lungo sul marciapiedi. Ho preso un biglietto di prima classe, non lo faccio quasi mai ma siamo ad ottobre e prevedo la prima classe abbastanza vuota e al riparo da viaggiatori impiccioni.
Non mi sono sbagliato nello scompartimento vi sono solo due persone, un bambino di circa cinque anni e una donna, probabilmente la madre. Lui ha un aspetto birichino, di sfrontata ingenuità lei, invece, è bella da morire, il suo sguardo mi ha trafitto cuore e cervello, non mi è mai successo fino ad oggi una simile sensazione. Come un adolescente alla prima cotta le punto addosso gli occhi, lei fa altrettanto, nessuno abbassa gli occhi e restiamo a fissarci per un minuto abbondante. Ho modo di osservarla attentamente, il vestito dalla gonna larga non lascia intravedere le forme ma è snella e ben fatta, anche il volto, per le sue fattezze, non è eccezionalmente bello ma i suoi occhi azzurri posizionati su un anso piccolo e a punta in su mi hanno letteralmente catturato, non riesco a distogliere i miei dai suoi, e pare che sia ampiamente ricambiato. Non so chi per primo ha abbozzato un sorriso, peraltro subito ricambiato, ma il nostro reciproco rapimento viene interrotto dal piccolo che tirandomi i pantaloni mi chiede a voce alta:
"N

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Sotto il Naso

Sentì il sudore freddo insinuarsi tra collo e colletto, allargò il nodo alla cravatta con un gesto svogliato e poco elegante.
Una sensazione di inadeguatezza lo soffocava e il ticchettio dell’orologio lo sfidava senza lasciargli tregua alcuna. Avrebbe voluto sfogarsi, gettare gli incartamenti in aria, guardare i fogli adagiarsi sul pavimento chiaro, tornare a casa dalla moglie.
Il dottor Foggia era stato fin troppo chiaro poco prima al telefono: Niente movente, niente cadavere, niente assassino.
Fermò le mani sui fianchi spostando leggermente la fondina, sbuffò. Abbassò lo sguardo e osservò i nastrini colorati sul nero della divisa. Gli restavano poche ore ormai: il signor Mengoli doveva essere a breve rilasciato. L’istinto si manifesta secondo leggi non scritte e come un miraggio appare in un lampo diventando un chiodo fisso che martella il cervello. Il maresciallo non nutriva alcun dubbio. Era stato lui. Lo aveva lì, in caserma, a disposizione. Eppure il presunto assassino sarebbe uscito sorridendo dalla porta principale facendosi beffa delle intuizioni dell’uomo in uniforme. Avrebbe mai potuto scrivere sul verbale di arresto del suo istinto, delle sensazioni o dell’odore acre che emana una bugia? Un qualsiasi avvocato avrebbe riso sonoramente leggendo un’incriminazione basata sul nulla. Il magistrato non poteva far altro che accertare la mancanza di prove inequivocabili.
Era stato breve, telegrafico come sempre, lapidario: Non avete niente per trattenerlo, non convalido nessun arresto, non con questi indizi.
Il caldo afoso e alterno di un’estate anomala non aiutava di certo a concentrarsi. L’afa è nemica dell’uomo in divisa, della cravatta, dei colletti bianchi, dei berretti e delle auto scure. A dire il vero c’era poco su cui riflettere; antipatia, qualche dissapore, vecchie gelosie, nulla che giustificasse un delitto. Eppure l’intuito lo aveva sempre aiutato e nessuno conosceva meglio di lui gli abitanti del paese.
Certe

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   3 commenti     di: Andrea Testa


Nel nome del padre (Prima parte)

Nel pomeriggio inoltrato di tardo autunno, in una giornata tiepida che i torinesi avrebbero rimpianto fino alla primavera successiva, un uomo alto e massiccio se ne stava davanti alla Fontana dei Dodici Mesi, nel cuore del parco del Valentino, con le mani ficcate a fondo nelle tasche di uno sformato cappotto scuro, spostando il peso del corpo obliquo da un piede all'altro e contraendo il viso oblungo in una smorfia di malcelato terrore. Singhiozzava sommessamente, mordendosi di tanto in tanto il labbro inferiore, e versava lacrime grosse quanto palline da golf. Si fosse trattato di un bambino, quel broncio avrebbe suscitato tenerezza, ma su quel colosso deforme suscitava soltanto inquietudine.
La bellezza della fontana era per lui orrore, la grazia delle statue raffiguranti i mesi era minaccia, l'acqua limpida che spruzzava gocce dal bagliore diamantino gli metteva voglia di fuggire lontano, i fiori, semplicemente, lo disgustavano. Non avrebbe mai voluto trovarsi lì. Non v'era luogo, in effetti, che lo rasserenasse, ma quello era un vero coacervo di incubi.
Sapeva di destare una strana impressione, sapeva che un uomo grande e grosso non dovrebbe piangere, ma non biasimava se stesso più di quanto facesse con le persone che gli gettavano occhiate timorose o divertite, poiché lui, quantomeno, sapeva, mentre la loro ignoranza li condannava a cadere nelle trappole del demonio.
La bellezza altro non era che l'abito buono di Satana, ciò che indossava per ammaliare i deboli. Lui vedeva il mondo per quel che era, non per come appariva, perciò sapeva questo e sapeva riconoscere le manifestazioni della bestia, come suo padre gli aveva insegnato senza mai ammettere dubbi. Nella grazia scorgeva gli ammiccamenti del peccato, nell'acqua riconosceva la fetida urina del diavolo e trovava che i fiori fossero il trucco più misero che quell'angelo caduto avesse mai inventato.
La tentazione ottenebra i sensi, disse suo padre con la consueta voce severa. Ma colui

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L'omicidio dell'Ammiraglio Joseph Finley

Dopo quarant'anni di servizio nella Reale Marina d'Inghilterra, l'Ammiraglio Joseph Stanley comandava per l'ultima volta i suoi marinai perché quel giorno sarebbe andato in congedo. I suoi colleghi gli avevano preparato la festa d'addio al circolo velico proprio vicino alla villa. Aveva costruito la sua villa sul mare. Il giardino era visibile solo dal cancello, perché il muro, tranne la parte che dava sul mare, era circondata da alberi alti. Il circolo rappresentava per lui un luogo di ricordi, in quanto quel posto, quando era bambino suo padre, un Capitano di vascello, lo portava a vedere quei marinai che si davano da fare con le vele. Un giorno, suo padre si sentì male e fu portato in ospedale, Joseph promise a suo padre che avrebbe intrapreso anche lui la carriera nella marina reale, suo padre gli sorrise e poi spirò. Quella sera, in alta uniforme tenne il discorso d'addio. La festa sarebbe continuata fino a tardi, ma lui decise di andare via verso mezzanotte. La sua segretaria gli si avvicinò e gli disse: "Ammiraglio, va a casa?". Domandò. "Sì Kate, sono un po' stanco. Passerò dalla spiaggia, vorrei sentire il rumore del mare per l'ultima volta". Gli rispose. Quando la festa finì, la sua segretaria vide le luci della villa spente e non si preoccupò più di tanto e andò a casa. La mattina dopo due ragazzi che correvano sulla spiaggia videro una figura sdraiata. Il ragazzo si avvicinò e vide che era morto e chiamò la polizia. Il lunedì mattina è sempre traumatico dopo un fine settimana spensierato, eravamo appena entrati in ufficio quando chiamarono dalla portineria: "Dimmi tutto Fred". Risposi. "Commissario, ha chiamato l'Ispettore Finley dal dipartimento di Portsmouth e mi ha detto che due ragazzi questa mattina hanno trovato un cadavere sulla spiaggia". Mi disse Fred. "Non può occuparsene l'Ispettore Finley, in fondo sarà il solito ubriaco che dopo una notte si è sentito male ed è morto!". Gli dissi. "Mi ha detto se può chiamarlo". Mi disse

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   0 commenti     di: maurizio


All'opera non si muore mai di noia

Dimmi come scrivi
e ti dirò chi sei.








"Neeessun dooorma, neeessun dooorma
Tuu pure, o priiincipeeessa,
Neella tua freeedda staaanza
Guaaardi le steeelle che tremanooo
D'amooore e diiisperaaanzaaa!
Maa il mio mistero e chiiuuuso in meee,
Il nome mio nessun sapraaa!
No, no, suuulla tua booocca lo dirò,
Quando la luce splenderà!
Ed il mio baaacio sciooglierà
Il siilenzio che tiii fa miiia!"



La sera del 5 dicembre, al Teatro Regio di Parma, uno dei numerosi atti d'amore di Maria Luigia verso la città, di fronte ad un uditorio delle grandi occasioni, si stava rappresentando La Turandot. L'immortale opera che Puccini non aveva mai portato a termine. E condotta a compimento, senza molta convinzione, da Franco Alfano. Una serata speciale. Presenti tutte le autorità più autorevoli e la crème della crème della società bene. Megaricchi provenienti da ogni parte del Paese. Membri del governo e imprenditori di gran stazza erano sbarcati dai loro jet, poche ore prima, all'aeroporto internazionale della simpatica città emiliana: Il Giuseppe Verdi. Critici e melomani si erano scapicollati da ogni dove. E, last but not least, un loggione da far tremare le vene ai polsi alle più audaci e dotate ugole del globo conosciuto stava accalcato in religioso silenzio. Pronto ad intercettare il minimo errore, la più impercettibile distrazione. E scatenare tutta la sua irruenta passione contro il malcapitato reo. L'intero incasso sarebbe stato devoluto in beneficenza. Eravamo ormai arrivati al terzo atto. Il tenore Arturo Leonida Borrelli era impegnato, con la solita consumata maestria, a offrire, se mai ve ne fosse stato bisogno, ulteriore saggio delle sue rinomate e celebrate qualità canore. Stava per terminare il celeberrimo Nessun Dorma che avrebbe mandato a dormire, di lì a poco, felici e appagati, tutti i presenti.

"Dilegua, o notte!
Tramontaaate, stelle, tramontaaate, steeelle!
All'alba viiincerooo, vincerooo,

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Dissennato da un delitto ( terza ed ultima parte )

Mi sedetti dulla potrona vina,
ero turbato, non riuscivo proprio a capire,
non era possibile, no, non era propio possibile!
Ricordavo perfettamente, di alerla gettata via
quella dannata lista. Ne era la prova evidente
il foglio tutto accartocciato.
Non riuscivo a trovar e pace, forse tavo impazzendo?
Presi dal piccolo carrello bar che ho per casa,
una bottiglia di J&B, me ne versai una doe abbondante
e la buttai giù tutta d'un fiato.
Questa storia aveva dell'incredibile.
Poco a poco, l'alcool cancellò quella vicenda
dalla mia mente, facendomi però crollare,
ubriaco fradicio, sul pavimento.
Mi svegliai dopo non so quanto tempo,
accanto a me, in ginocchio,
c'era Lisa, bella e impeccabile come sempre,
che mi chiamava, mi strattonava, quando fui
completamente desto, si alzò di scatto,
e andò a sedersi sulla potrona dove prima ero io.
Sul tavolino, davanti a lei, c'era la bottiglia vuota
del whisky che mi ero scolato, si arrabbiò molto,
pretendeva una spiegazione, perchè mi ero ubriacato?
io... non lo ricordavo più...
Lei ovviamente non ci credeva, voleva sapere,
ad un tratto, si fece più insistente,
stava cominciando a darmi fastidio.
Oddio, non mi ero mai sentito così,
all'improvviso in me crebbe un'ira incredibile,
mi alzai barcollando dal pavimento, e le gridai,
di stare zitta e di non insistere,
fino ad allora non avevo mai alzato la voce con lei,
ma Lisa continuò imperterrita a urlare e ad insultuarmi.
D'un tratto ricordai tutto, ... la lista... dovevo, dovevo,
possibile che fosse lei? L'opera che dovevo creare?
Ma si certo era lei! Dovevo ucciderla,
dovevo creare la mia opera,
la più bella di tutte in assoluto.
Mentre lei era ancora li ad imprecare e urlare,
mi allontanai, presi un tagliacarte dalla scrivania,
andai verso lei, le afferrai il braccio e la pugnalai.
Non ebbe neanche il tempo di piangere,
cadde in un tonfo sordo,
ero stranamente felice, non facevo altro che

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