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Racconti horror

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Il Bosco

Fin da piccolo Alessandro aveva paura delle streghe. Ogni sera leggeva storie su queste creature diaboliche, prima di addormentarsi. Quando ormai aveva chiuso gli occhi, sognava di entrare nella foresta, in volo: i suoi piedi non toccavano terra, mentre da lontano vedeva una casa, fatta di pietre, e con delle fiochi luci accese, e si avvicinava sempre di più ad essa. Fuori dalla porta usciva lei: uno scialle lungo sulle spalle, un mantello che le scendeva fino a piedi e che copriva tutto il corpo. Dopodichè alzava lo sguardo verso di lui: non poteva guardarla, tentava di chiudere gli occhi, ma da quel volto, riusciva a scorgere i suoi occhi, gialli, e diabolici, uno sguardo compiaciuto verso di lui. Quando ormai era molto, molto vicino, alzava le braccia verso di lui, mostrando delle mani rugose, con dita lunghe strette, che si muovevano e gesticolavano, come per fargli capire che lo voleva, lo desiderava. Le sue dita putride lo toccavano, le unghie quasi si infalavano per la carne... ma si svegliava.
Anche quel giorno Alessandro si svegliò dopo l'incubo. Si svegliò mentre era in macchina, perchè non era un giorno come tutti gli altri:era il giorno del trasloco. I suoi genitori avevano deciso di trasferirsi per lavoro: a Milano avevano un negozio d'antiquariato, che era fallito, ma per loro fortuna avevano trovato un'occupazione come commessi in un altro negozio d'antiquariato in una cittadina a sud di Milano. Avrebbero voluto trasferirsi in quella cittadina, ma i prezzi delle case non erano assolutamente accessibili a loro, finchè il padrone del nuovo negozio gli rivelò che aveva da tempo intenzione di vendere a poco prezzo una villetta in uno sconosciuto paese dei dintorni. Quando videro la casa ne furono entusiasti, tuttavia vi era qualcosa di strano: egli non disse nulla riguardo al paese. Sembrò invece piuttosto entusiasta quando seppe che erano interessati alla casa, e si sentì addirittura liberato da un enorme peso quando decisero definitivam

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   3 commenti     di: Nicolò Giani


Il Dio in scatola

"L'infimo e il sublime sono le due vie di uscita dalla normalità."
Un tizio impegnato a costruire aeroplanini di carta sta parlando da solo vicino a me, ma non gli do ascolto. Seduto nella sala di aspetto della piccola stazione mi annoio ad aspettare il treno che non arriverà prima di due ore.
"Io ho scelto la seconda soluzione e ho costruito un Dio" prosegue la voce.
Mi volto verso l'uomo che ha parlato. É magro, vestito di grigio. Approfitta del mio sguardo per sorridermi e per allungarmi la mano:
"Mi chiamo Hartley e sono meccanico."
Fa una pausa: "Come le dicevo, poiché sono un meccanico ho voluto fabbricare un Dio logico, un Dio razionale. Mi capisce?"
"Ha fatto questo, dice? Chissà che fatica!" commento.
"No. Alcuni costruiscono imperi, altri fanno bolle di sapone. Io mi sono divertito a costruire un Dio."
"Un Dio? Non è nuova questa invenzione. Ce ne sono già tanti sulla terra" gli rispondo deluso.
"Ci sono tanti Dèi che sono i simboli delle aspirazioni, dei desideri e dei bisogni dell'umanità. Questi Dèi sono la materializzazione di un grido di dolore, sono solo surrogati. Il mio Dio invece, quello che ho costruito, serve a realizzare i desideri."
Questo tipo è un pensatore. Per metterlo in imbarazzo gli faccio la domanda che ha fatto impazzire per secoli i filosofi:
"A cosa serve la sofferenza sulla terra?"
Lui non sembra scomporsi e risponde con tranquillità:
"La sofferenza è come il pepe, serve a rendere meno insipida e più interessante la vita."
I discorsi dell'ometto incominciano a interessarmi.
"E come l'ha fatto il suo Dio? Come un uomo?"
"Un Dio antropomorfo sarebbe stato possibile, ma con debolezze e vizi umani. No! Ho preferito dargli un'altra forma."
"E serve per esaudire i desideri, ha detto?"
"I desideri dell'uomo."
"Sì, sì, certo ma... può provare quello che afferma?"
"Venga. Venga a vedere. Il mio laboratorio è qui vicino. Sa, io non devo partire" spiega l'ometto, "di solito vengo qui solo per studiare i t

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   2 commenti     di: sergio bissoli


Nella Luce

Sono in una stanza bianca, addosso ho solo la camicia da notte che mi hanno dato un mese fa, quando mi hanno internato in questo posto, ha le maniche lunghe e mi arriva fino al ginocchio, il candito tessuto che la compone è oramai diventato grigio. Sento delle voci ovattate che parlano di me, ma sono troppo soffocate per capire che dicono.
Faccio qualche passo, mi volto e vedo le orme insanguinate che ho lasciato dietro me quando sono entrata di fretta in questa stanza, gli infermieri mi stavano inseguendo perché, dopo aver rotto la finestra della mia stanza ho cercato di buttarmi di sotto. Ma loro mi hanno preso prima che potessi farlo, e hanno messo fine al mio tentativo di volare verso la libertà.
Vedo le orme perdersi nel nulla perché la luce di questa stanza è talmente forte da non fare distinguere le pareti e la porta. Mi rigiro, e vedo qualcosa che prima non c’era. Una grossa chiazza di sangue sul muro, è fresco e vivo, sembra scorrere dalle pareti. È un immenso schizzo rosso che sporca il candore del muro. Mi avvicino, molto lentamente, chiedendomi se per caso questa sia tutta un’allucinazione, o se sono riuscita a buttarmi e ora sto vivendo l’oltretomba. Sono ad un passo dal muro, e d’improvviso la stanza diventa buia. Completamente nera. Sento l’odore acre del sangue, e un respiro roco sul mio collo. Non è un respiro umano, è orribile, come se alla creatura che lo emetteva mancasse la lingua. Urlo di paura quasi senza accorgermene, ma pur sapendo che nessuno mi avrebbe udito.
Dunque, penso tra me e me, è questa la famosa stanza. Quella di cui gli infermieri e i pazienti che sono qui da molto tempo, parlano malvolentieri. Qui venne rinchiuso un paziente molto particolare.
La “leggenda” vuole che Ector, il paziente, fosse un tipo strano ossessionato dal sangue. Venne portato qui una notte, di nascosto da tutti per non destare curiosità sul nuovo arrivato. Alcuni infermieri che gli portavano il cibo e i calmanti non vennero mai

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Viaggio allucinato

Un giorno mi stavo avventurando per la sassosa mulattiera della montagna sopra il mio paese. Benchè fosse ancora settembre l'aria era frizzante, tirava una brezza continua  e freschissima; e le nuvole si rincorrevano accarezzandomi con la loro ombra. Pensavo a tutti gli animali che non avevo mai visto di persona e che avrei voluto incontrare nel bosco. Pensavo ai lupi, alle linci, agli orsi, agli astori, agli sparvieri. Ma pensavo anche al gufo reale e al succiacapre. Chissà perchè pensavo che se avessi visto quest'ultimo non ne sarei stato abbastanza lieto. Quello strano pennuto aveva un aspetto decisamente inquietante e incontrarlo - cosa rara - mi avrebbe condotto verso una sorte intenzionalmente funesta.
Ad un tratto odo un frusciare di rami e scorgo una grossa sagoma dileguarsi sospesa. Mi sporgo oltre una piccola radura e riesco a scorgere un grosso uccello grigio che prosegue il suo volo senza produrre il minimo fruscio d'ali.
Dev'essere un gufo reale. Provo a seguirlo e mi metto quasi a correre tra gli alberi; senza accorgermi che i cerri hanno ceduto il posto a pini neri. I miei occhi non scorgono + il minimo movimento tra i rami alti. Ad un tratto però odo un ululato profondo e breve: dev'essere lui.
Seguo la fonte di quel richiamo e mi fa piacere sentirmi su un percorso ben definio. Tante di quelle volte mi ero irritato del fatto che un suono abbastanza vicino non mi rivelasse la direzione esatta da cui proveniva. Il tempo sembrava svanire sotto lo scricchiolare di rametti e foglie secche che i miei passi sempre più rapidi alternavano a mo' di pendola.
Giunto presso una radura mi sono fermato a riprendere fiato e solo allora ho notato quanto si fosse fatto scuro e quanto poco familiare fosse ormai la boscaglia. Ero decisamente oltre i confini dell'area che sin da piccolo frequentavo con mio padre.
La luce che il cielo coperto proiettava sul bosco era di uno spettrale grigio perla e mi pareva quasi di essere in uno di quei videogiochi

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Il martedi della Marisa

La mia vita precipitò in un cumulo di macerie esattamente di Martedì.
Perchè poi proprio quel giorno, non saprei dirvelo neppure io, fatto sta che mi ritrovai a dover raccogliere quel poco che era rimasto della mia esistenza con una paletta per gli escrementi dei cani.
L'esordio della giornata, fredda, umida e con un pesante telo di nebbia lungo tutto il quartiere mi avrebbe dovuto allarmare sulle tragiche conseguenze del mio abituale risveglio mattutino, invece no: presi la mia solita tazza di thè verde, le mie tre fette biscottate integrali, la mia insalata per la pausa pranzo al lavoro, la borsetta Vuitton costata un capitale e uscii da quell'appartamentino così piccolo e così stretto per le mie esigenze.
Quando arrivai giù nel parcheggio del cortile vuoi te che non si presenta il portiere a cercare per l'ennesima volta di portarmi a letto? No, era li, con la solita brioche fumante in mano, che come d'abitudine accettai, rimarcando mentalmente la nota "buttare nel cestino, oppure darla al lavavetri al semaforo in fondo alla via", così con questa pasta dannatamente bollente in una mano e con l'altra mano occupata dalla borsa ( quelle Vuitton hanno delle chinghie deliziosamente scivolose) mi trovai a dover prendere le chiavi della mia piccola Panda verde chiaro ( da cui potete capire il livello della mia autostima quanto era calato") come un giocoliere può giostrare tre elefanti e un obeluisco egiziano.
Inevitabilmente, le chiavi caddero ( amen!), poi la borsa con tutto il suo contenuto, compreso l'iphone 4g appena comprato e scartato due giorni prima ma non ancora usato perchè così complesso che mi sto chiedendo se sono normodotata mentalmente, e qui partono epiteti degni di un marinaio a cui uno squalo ha appena addentato i testicoli, e infine con una sonora onomatopea di qualcosa di molle che si schianta pure la brioche, con il cioccolato ( vade retro grasso!) che schizza allegramente da tutte le parti ( qui ho sorriso dolcemente con aria assassi

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Giochi fastidiosi

La notizia della morte della signora Smith non fu poi così dolorosa: la donna era ormai vecchia e sola ma soprattutto era diventata una sorta di spina nel fianco per tutti i suoi compaesani. Da anni ormai la donna sembrava odiare tutto e tutti e aveva da lamentarsi sempre di qualsiasi cosa; soprattutto di tre ragazzini che si divertivano a scorrazzare di qua e di la per tutto il paese in cerca di avventure fanciullesche.
Steve, John e Frank, il giorno della morte della signora Smith, avevano passato la mattinata a giocare nella casa abbandonata di fronte l' abitazione della donna che non perse occasione di sgridare per l' ennesima volta i ragazzini. La donna fu trovata morta la mattina dopo nello scantinato proprio della casa abbandonata.
Quello che faceva scalpore dunque, non era tanto la morte della donna, ma il sospetto che i colpevoli fossero proprio i ragazzini, stufi di essere continuamente infastiditi dalla donna.
"lo sapevo che sarebbe successo un casino!" si lamentava Frank con i suoi amici, "senti è stato un incidente okay? la volevamo solo spaventare non è colpa nostra se quella sporca vecchia aveva le gambe malandate! e poi come scusa regge! è caduta dalle scale bo basta!" cercò di giustificarsi Steve. Ma i tre sapevano bene chela colpa era la loro: volevano spaventare la vecchia schiamazzando dalla casa abbandonata, ma la donna nell' andare a controllare lo scantinato, caddè dalle scale rompendosi l' osso del collo.
La notte dei tre galeotti fu a dir poco tenebrosa: colma di incubi e sogni strani in cui venivano condannati alla pena di morte, lapidati dalla gente del paese o giudicati da una signora Smih in versione zombie.
Ore 2: 13, John si svegliò dall' ennesimo incubo ma non fu svegliato tanto dal sogno, ma da una forza misteriosa, come un richiamo. Il ragazzo scese nel giardino di casa silenziosamente per non svegliare i genitori, ebbe un attimo di terrore nella figura che si trovò davanti ma poi capì che non aveva niente d

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   5 commenti     di: Philip Burns


Alys on Hell (6)

Siria strinse la mano al vecchio collega che ammiccò un sorriso alla bambina.
"Ora io ed Alys ce ne andiamo di la a parlare un attimo!" Disse ai tre.
"Vai amore! Vai con lui! È importante!" Sussurrò la madre.
Jacob non disse niente. Si limitò ad osservare la scena.
Sua figlia prese la mano di quel collega della mamma ed andò in un'altra stanza.
"Hai visto? Non ha fatto problemi Alys!" Siria disse rivolgendosi al marito.
"Strano! Con me è così silenziosa!" Pronunciò.
"Non so quanto quel tuo collega riuscirà a tirarle fuori; sempre ci sia qualcosa da tirare fuori." Concluse.
"È molto bravo credimi! L'ho visto all'opera e con i bambini ci sa molto fare." Sottolineò Siria.
Il dottor Albert Swan si presentò ad Alys con un ulteriore sorriso; non prima d'averla fatta mettere a sedere comoda di fronte a lui.
"Allora Alys! Come va?" Chiese.
"Questa sarebbe la prima domanda dottore?" Rispose.
"Ops.!! No.. era per metterti un attimo a tuo agio!" Gli disse.
"Prima di iniziare con le domande!" Concluse.
"Io sono a mio agio e lei?" Alys lo squadrò da capo ai piedi.
"Oh.. simpatica! Io sto benissimo! Ok.. vuoi una caramella? Qualcosa?" Le chiese.
"Alys guardò il vasetto pieno di caramelle ed aggiunse:
"Non accetto caramelle dagli sconosciuti!"
Il dottore parve trasalire un attimo.
"Va bene! Va bene! Dedichiamoci dunque a questa chiacchierata.
Tu lo sai perché sei qui vero?"
"Dottore!" Disse La bambina.
"Si?"
"Se continua così andiamo poco avanti! Se io so perché sono qua?
Forse perché la notte non riesco a dormire; forse perché certe notti ho febbre altissima, ma i miei non sempre se ne accorgono?
Forse perché proprio ieri ho sanguinato così tanto che sembrava il Nilo, mi pare di ricordare; quando una piaga lo colse! Ma non vorrei sbagliarmi"
Finì e gli piantò un sorriso.
Il dottore traballò dalla sedia.
"Quanti anni hai scusa?" Le chiese.
"Guardi nella cartelletta se non

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   1 commenti     di: Dark Angel



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