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Racconti horror

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L'occhio del ciclone

Un cupo e possente rombo devasta il silenzio del posto dimenticato da Dio che prende il nome di villaggio di Marik.
Le vecchie case tremano come alberi scossi dal vento, per quanto la detonazione sia avvenuta a chilometri di distanza da qui.
Dannazione.
'Sono il tenente Ivo Serlianovic, e vi guiderò fino alla morte' avevo giurato quando era iniziata questa maledetta guerra. A quanto pare è giunto il momento di terminare il mio lavoro.
Affacciato alla finestra senza vetri della casa in cui ho fatto dislocare i miei commilitoni, un temprato manipolo di undici uomini, duri come l'acciaio, posso vedere i bagliori dell'esplosione. È avvenuta a nord, deve aver colpito una città di cui nemmeno gli abitanti sapevano nemmeno il nome. E nemmeno io avrò modo di controllarlo, visto che la cartina di questi maledettissimi luoghi è andata in fiamme insieme a molte altre cose utili, come la radio.
Sono rimasto il più alto graduato, ma per quanto sia giovane ed inesperto, i miei uomini mi hanno dato la loro fiducia e continuano a fidarsi di me, anche in un momento come questo.
Un dannatissimo gruppo di serbi in mezzo alle linee della Federazione, non siamo altro che questo...
In un villaggio isolato a una sessantina di chilometri a nord di Sarajevo, siamo davvero soli.
Comincio a dubitare dei serbi di Bosnia che siamo venuti ad aiutare. Le forze della repubblica srpska ci hanno lasciati qua, in mezzo al nulla, in un territorio sconosciuto.
Dannati bastardi.
È stata una grazia del cielo trovare Marik, un minuscolo villaggio abbandonato, in cui però grazie a Dio abbiamo trovato un tetto sotto cui riposare e molti oggetti utili, come viveri e coperte, che gli antichi proprietari hanno lasciato nel turbinio della fuga.
"Tenente, venga subito!"
La voce giovane del soldato Miric richiama subito la mia attenzione. Comincio a camminare verso l'esterno, dove si trova il ragazzo, producendo battiti ritmici con il rumore degli stivali sul legno del pavimento.

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   0 commenti     di: Andrea Bocca


Notte di tempesta

La sera di novembre è cupa e piovosa.
Il villaggio appare deserto poiché nessuno osa uscire di casa. Una pioggia torrenziale sta cadendo da ore e la bufera non accenna a diminuire. Le pozzanghere in certi punti arrivano fino al centro della strada e i fossi sono straripati.
Cammino, immerso nei miei pensieri. Non so se sono ancora in tempo per salutare Sarah prima che sia già partita. É stata la mia compagna di giochi per tanti anni ed ora anche lei se ne va; lascia per sempre il paese.
Cammino abbassando il parapioggia per proteggermi dagli scrosci di acqua spinta dal vento. Nel mio animo c'è una grande tristezza quasi un senso di impotenza e di annientamento.
La casa di Sarah sta isolata fuori dal villaggio. Nella notte piovosa è solo un'ombra scura e priva di vita. Due finestre piccole al piano superiore risplendono fiocamente come lumi.
Busso alla porta bagnata cercando riparo sotto all'architrave. Poi provo a chiamare ma la mia voce si disperde nel vento.
In silenzio la porta si apre un poco, quanto basta per lasciarmi passare. Appena entro nella saletta la vedo: Sarah indossa un vestito bianco e ha i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. In mano tiene una bugia di ottone con una candela accesa. Nei suoi occhi c'è smarrimento e paura.
Rinchiude mettendo i catenacci mentre io deposito in un angolo il parapioggia che forma subito una pozzanghera sulle mattonelle. Mi guardo intorno: la saletta vuota sembra più piccola. I mobili sono già stati portati via, è rimasto solo un baule e alcune valige.
Senza parlare Sarah mi fa cenno di seguirla. Attraversiamo la cucina, dove abbiamo trascorso pomeriggi a giocare fra il borbottare dei nonni e l'abbaiare dei cuccioli. Ora che sono partiti tutti è solo una stanza priva di vita, fredda e vuota.
Con movimenti flessuosi la ragazza sale le scale ripide di legno tenendo alta la candela. La fiamma tremolante scava ombre paurose sulle pareti. La pioggia di novembre cade sui tetti con un rumore insistente

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   1 commenti     di: sergio bissoli


La seconda possibilità

Era stanco. Stanco della solita solfa, stanco delle solite sere, passate a fare sempre le stesse cose, gli stessi discorsi; stanco delle solite discoteche che promettevano musica, alcool, ma anche forse, l'amore di una notte, o quantomeno di esso, la solita maledetta parvenza. Meditava di cambiare le cose, la propria vita; domani avrebbe chiesto di un'associazione di volontariato, o sarebbe andato a cantare nel coro della chiesa. Non ne poteva davvero più di quella vita senza sentimenti, senza un perché, che lo aveva tenuto incatenato fino a quel momento, dietro i ricatti dell'amicizia faceta, di un'amore mai sbocciato, e di falsi idoli cui davvero mai, mai, aveva creduto, ma dai quali s'era fatto trascinare per la troppa pigrizia, e la paura di perdere tutte quante la basi su cui aveva costruito la stolida vita che adesso, nauseato, stava vivendo.
Mentre pensava tutte queste cose, si alzò dal tavolo cui era seduto con il solito gruppo, e si congedò da esso con una scusa che nemmeno si sforzò di rendere credibile: "Ragazzi, devo andare a casa. Ho un mal di testa troppo forte". Emilia si offrì di accompagnarlo, chiedendosi dopo il rifiuto secco avuto in risposta, come uno che ha mal di testa, preferisca percorrere 2 Km a piedi, di sera e soprattutto con un vento fresco, si, ma abbastanza forte, che forse preannunciava pioggia di lì a qualche ora... beh, sarebbe stato un buon argomento di conversazione, visto le altre facce che s'interrogavano sull'accaduto.
"Ho solo gettato il mio tempo, ho solo lasciato che fino ad oggi la mia vita fosse in mano agli altri. Che stupido. Gli altri per me cos'hanno mai fatto? Sono più le delusioni che le gioie, ma doman...". D'improvviso un lampo lo destò dai suoi pensieri, e lo riportò lì, dov'era anche prima che la sua mente lo portasse a vagare, ad immaginare, a recriminare. "Debbo trovare un riparo. Maledette case senza balconi.." - disse tra sè, e affrettò il passo, diviso tra il piacere che gli dava il pensiero

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   0 commenti     di: a. r. d. s. a.


Seven Queens; le sette Regine

Parte 1:
Nessuno mi credeva. Nessuno riusciva a prendere sul serio quello che dicevo. Nessuno provava ad ascoltarmi. “Tutti uguali, ottusi del cavolo” pensavo mentre i miei genitori adottivi se ne stavano sdraiati sul divano a guardare il Grande Fratello. Bastava accendere la televisione e via, chi li portava più sulla Terra. Se in tv ti dicono che domani devi vestirti con le mutande sopra i pantaloni, a tutti sembra un’idea magnifica. Bizzarra forse, ma allo stesso tempo geniale e innovativa. Ma se un’ adolescente prova a spiegare una cosa soprannaturale, nessuno le crede, anzi le da addosso dicendo che guarda troppa “tv spazzatura”.
“Puttanate” mi dicevo in mente e speravo in un domani migliore, anche se, giorno dopo giorno, il domani sembrava sempre più buio e oscuro, senza via di uscita. Volevo scappare, documentarmi, capire cosa era successo il 17 Aprile 1998, quando, in circostanze misteriose, i miei genitori furono assassinati. Dire assassinati è limitativo rispetto a ciò che i miei poveri cari dovettero subire. Quando gli agenti della polizia entrarono nella loro camera, in molti corsero in bagno, in cucina per rimettere la loro colazione. “Questa non è opera umana, non è possibile” ripeteva il povero commissario, visibilmente scosso da quell’ osceno teatro.
Il caso fu archiviato dopo due soli mesi e io venni allontanata da Torino, dai miei nonni, dalla mia casa e rinchiusa tra quattro grigie mura a Milano, affidata a due estranei che non riuscivo a guardare in faccia. Non ero trattata da persona, nemmeno da cameriera, oserei dire da serva. Mi fecero lasciare la scuola a 15 anni per farmi andare a lavorare mentre loro poltrivano a casa come due orsi in letargo. Li detestavo. Lei, grassa e foruncolosa, emanava una miscela di aglio e Tavernello che avrebbe potuto stendere anche una puzzola. Lui, ubriacone e rozzo, mi picchiava perché non portavo abbastanza soldi a casa.
A 17 anni, decisi che quella non era vita. Scappai di cas

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   2 commenti     di: Darren Stevens


Piccoli paradisi

Nelle mia passeggiate serali per favorire la digestione mi piace percorrere una strada di campagna nel paese di M***.
Anche questa sera cammino lungo questa strada solitaria, dove raramente incontro qualche contadino. Oltrepasso un ponte sul fiume ascoltando le rane che gracidano al tramonto. Più in là c'è una pompa arrugginita attaccata a un pilastro. Ancora più avanti, dopo una curva, passo davanti a una vecchia casa abbandonata.
È una casa grigia, lunga e stretta, con il fumaiolo smozzicato. L'intonaco scrostato lascia vedere i mattoni. Erbacce crescono tutto intorno e c'è un bidone appoggiato al muro. Una delle finestre è aperta e viene fuori odore di muffa e umidità.
Calpestando ortiche e calcinacci mi avvicino di più, per vedere l'interno semibuio. C'è un camino fuligginoso, una credenza marcita e uno specchio rotto. Forse una di queste sere entrerò dalla finestra per visitare anche le stanze al piano superiore.
La sera seguente percorro ancora quella strada e rimango più tempo davanti alla casa abbandonata. In quella solitudine mi imbevo del suo passato, assorbo momenti della sua storia.
Sono convinto che nelle vecchie case sono registrati e conservati gli avvenimenti che si sono svolti. Tutti i gesti della commedia della vita; i gesti tipici dell'amore, che sono stati ripetuti per decine di anni. Sicuramente le scene di vita familiare sono ancora impregnate in questi ambienti. Con un poca di sensibilità è possibile percepire le memorie dei muri, cioè i piccoli paradisi che sono racchiusi dentro queste stanze.
La sera seguente sto ancora camminando lungo la strada che porta alla vecchia casa. I giorni si accorciano e la luce del crepuscolo è più grigia e più smorta.
Quando arrivo davanti all'edificio in rovina la luce è ancora più scarsa.
Dalla finestra adesso vedo la stanza all'interno come se fosse piena di fumo. Ma non sento odore di bruciato. C'è una strana luce polverosa dentro alla stanza e in quella nebulosità si muovono a

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   1 commenti     di: sergio bissoli


La casa inquieta

Hanno suscitato chiacchiere e congetture gli strani avvenimenti del meccanico Francisco di G***. Il suo caso è apparso anche su un giornale locale.
Così un pomeriggio di settembre vado a trovare quest'uomo.
Il signor Francisco ha sessant'anni, è grassoccio, con i capelli grigi e l'aria stanca e un po' abbattuta. Gli dico che sono uno studioso di poltergeist e che mi interessa sapere esattamente cosa è successo. Lui emette un sospiro poi incomincia a raccontare:
"Sono già venuti in tanti. Dirò anche a lei quello che ho detto ai giornalisti. Prima di andare in pensione abitavo in una casetta alla periferia di G***. Una mattina mia moglie, malata di cuore da anni, ha avuto un attacco e non c'è stato niente da fare... Dopo la morte della mia cara Jenny sono rimasto solo e in casa sono incominciati i fenomeni. Le luci si accendevano, le porte si aprivano da sole... Ho chiesto aiuto ai vicini, al prete, a una maga ma non è servito. Non avevo paura, ma non potevo più restare. Dopo due settimane mi sono trasferito qui in casa di mia figlia sposata, e ho ripreso la mia vita."
Mi fermo di scrivere appunti poi faccio la mia richiesta:
"Vorrei vedere la casa."
L'uomo ha un sussulto e sembra pensarci un po'. Poi esclama:
"Venga."
Prende un mazzo di chiavi, si infila la giacca e usciamo. Dopo mezz'ora di automobile arriviamo a un sobborgo nuovo alla periferia di G***. A piedi ci avviamo verso il N°54, una casetta seminuova color giallo, con giardinetto incolto anteriore. Mentre il proprietario fa scattare la serratura noto i vicini che ci guardano sospettosamente.
Finalmente entriamo dentro.
Una saletta in penombra con il pavimento a losanghe bianche e nere. Alcuni mobiletti, un vaso di fiori in plastica, una vetrinetta con i bicchieri. Nell'angolo c'è una macchina da cucire. Sulla destra c'è un sottoscala tetro con mensole piene di scarpe e vestiti femminili attaccati ai chiodi. Fa molto freddo qui dentro.
Muoviamo alcuni passi ed entriamo in cucina. Dalla

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   1 commenti     di: sergio bissoli


Il Barbecue

I

Andy e Linda non erano mai stati tipi molto socievoli. Da quando si erano trasferiti in quel quartiere (ed erano passati ormai oltre tre mesi) avevano parlato si e no un paio di volte con i vicini. Andy, faceva il ragioniere e lavorava nello studio di un ex compagno del liceo, che però non si era fermato al ginnasio come lui, ma era andato avanti negli studi, aveva preso una laurea in economia e commercio e adesso aveva un piccolo studio che cominciava a ingranare.
Linda aveva fatto diversi lavori, principalmente la commessa (in verità per un certo periodo anche l'aiuto estetista), ma da quando si erano trasferiti nella nuova città non le era ancora riuscito di trovare un impiego full time e per ora lavorava tre pomeriggi a settimana in un negozio di alimentari.
In verità il fatto che Linda non lavorasse full time non costituiva un grosso problema: non erano spendaccioni e se la cavavano abbastanza bene anche così. Era più che altro per non rimanere a casa a far niente tutto il giorno e per la soddisfazione di fare qualcosa in cui realizzarsi, almeno un poco.
Figli a cui badare, dal tronde, non ce n'erano. Dopo vari tentativi falliti avevano scoperto che Andy era sterile e questo, per un pò, era stato motivo di depressione. Poi però, come si dice, il tempo rimargina le ferite e poco a poco erano riusciti a farsene una ragione, anche perchè la vita, insomma, andava avanti e forse c'erano mali peggiori da sopportare.
Quella mattina (la mattina del giorno del barbecue) Andy decise di andare allo studio in bicicletta. La strada da fare non era poi molta ed era anche una bella giornata. Cercavano di usare la piccola giardinetta il meno possibile: la benzina costava cara e fare un po' di movimento, dopotutto, faceva anche bene alla salute.
"A stasera.." Le disse mentre le schioccava un bacio sulla guancia.
"Hai preso i sandwich?" Chiese Linda. Gliene aveva preparati due integrali al tonno e aveva anche aggiunto un succo di frutta.
Lui le mostrò il

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