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Racconti del mistero

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La mia Luna ( Cap. II - Cloe )

Percorrendo l’Autostrada dei Fiori  ad alta velocità, l’auto di Thomas raggiunse il cartello con l’indicazione per l’uscita di Spotorno.
Dall’alto del cavalcavia il contrasto tra l’azzurro del cielo ed il blu del mare alimentava la voglia di arrivare in fretta, quasi a concedersi la possibilità di una bracciata in quell’acqua limpida e tranquilla.
In passato il piccolo paese era un misero centro della riviera, conteso dai più rinomati Noli e Savona, ma  con la fine della guerra il paesaggio iniziò a mutare notevolmente e con lui nacquero i primi stabilimenti balneari, i primi hotels e tutto quello che accompagna il turismo riuscendo però a mantenere  sempre intatte le tradizioni, i sapori e le bellezze artistiche di un tempo.
Il passaggio sulla corsia riservata al Telepass consentì ai due di evitare la sosta al casello ed inanellare la serie di tornanti che scendendo dall’alto della verde collina, portavano fino al lungo mare.
Per tutto il tragitto non si erano scambiati una sola parola e l’unico nuovo particolare di cui era venuto a conoscenza Thomas era la marca di sigarette che la giovane donna fumava. Il pacchetto,  era stato appoggiato sul cruscotto, fintamente dimenticato sul vano porta oggetti, ma ben in vista, quasi Cloe si fosse aspettata come segno di cortesia da parte dell’uomo l’invito per poterne fare uso.
Dal canto suo Thomas non fumava dai tempi della scuola, dove la voglia di farsi notare dalle ragazzine dell’istituto privato, lo portava sistematicamente a piegarsi in due dai violenti colpi di tosse e conati di vomito.
L’ora ormai volgeva verso la mezza, e mentre percorrevano a velocità ridotta le vie del centro, Thomas si rivolse in modo cortese ma con un tono di  voce fin troppo deciso, alla bella addormentata nel bosco con l’intento di farla sobbalzare dal sedile in cui si era lasciata andare ad un sonno leggero.
<< La signora gradirebbe un boccone prima del nostro arrivo al castello? >>
Da dietro l

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Il figlio della paura (prima parte)

Fino al ventuno novembre dell'anno scorso, ovvero dodici mesi fa, mi ero sempre considerato una per-sona pragmatica deridendo tutti coloro che affermavano la veridicità delle credenze popolari. Con aria seccata li marchiavo come creduloni o, peggio, infantili imbonitori, a loro volta imboniti, di quelle che ri-tenevo fossero lugubri fiabe strategicamente raccontate dalle nonne per tenere buoni i nipotini testar-di e capricciosi. A volte erano gli strumenti scherzosi a disposizione dei fantasisti con i quali venivano intrattenuti amici e parenti davanti a un camino acceso, d'inverno, e con un fiasco di buon vino a portata di mano. In questo caso, come nell'altro, c'era l'indubbia coscienza di raccontare ciò che si sapeva real-mente fossero: futili racconti. In entrambi i casi si otteneva il medesimo risultato, quello di attirare l'attenzione, dei bimbi nel primo, affinché stessero calmi e buoni, e dei grandi nel secondo, affinché non si annoiassero.
Ciò che accadde quel giorno va oltre ogni comprensione umana e ne rimasi profondamente turbato. Per mesi e mesi mi sono sempre chiesto se è realmente accaduto oppure se sono stato vittima di uno scher-zo della mente. Eppure ogni qualvolta tento di convincermi di questo mi basta aprire il secondo cassetto della scrivania, guardarci dentro e riprovare le stesse emozioni di quel giorno.
Ricordo perfettamente quel grigio pomeriggio di inizio inverno avvolto in una fitta e fredda nebbia. Avevo litigato con mia moglie per l'educazione dei bambini, chiaramente sulla mia incapacità ad educarli, secondo lei, e tanto mi aveva innervosito parecchio. Non era certamente la prima volta che ciò accadeva e, comunque, loro, i pargoli, sapevano benissimo trarre tutti i vantaggi possibili dai nostri litigi per farsi coccolare di più e, di conseguenza, viziare più di quanto già lo fossero.
Al termine della discussione pranzammo in un'atmosfera di guerra fredda e ciò mi fece anticipare l'uscita di casa rinunciando al pomeridian

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   4 commenti     di: Michele Rotunno


La meta erano le Nuove

La meta erano le Nuove. Le carceri più antiche di Torino, imponenti e scure, ora deserte e per questo fascinose: un luogo di detenzione vuoto che accoglie l’uomo libero che le esplora, ne conosce gli anditi misteriosi, nascosti ai più.
La data era il 25 aprile, festa della Liberazione e per onorarla bisognava andare ancora una volta e con piacere ad assistere allo spettacolo di Mauro Il crocevia del Sempione. Proprio lì dove nelle celle più profonde e umide morirono i martiri di quei giorni.
Le spettatrici sarebbero state Lia e Marella, amiche dai banchi di scuola, dai primi amori, dai primi dolori, amiche da sempre, da prima del prima.
Il problema però era la benzina: il tragitto con la macchina di Lia, da casa sua alle carceri e ritorno, non avrebbe permesso di stare tranquille con il serbatoio in riserva. Quindi era necessario un distributore. Quello di corso Regina angolo corso Farini faceva al caso loro, ma era festa appunto, e il distributore era solo “self service”.
< Tu sei a capace a fare benzina da sola? > domandò Marella con il tono di quella che chiede una cosa superflua, che pone quelle domande cui gli inglesi rispondono < Yes, of course > o < Yes, I do >. E così fu la risposta di Lia: < Si certo >. Anche un po’ stizzita dalla possibilità che l’amica mettesse in dubbio la sua familiarità con le pompe di raffinato. Senza avvertire in quell’interrogativo la reale preoccupazione di Marella, la quale sapeva invece con certezza di non esserne capace.
In ogni caso si appostarono accanto al distributore, compiendo un veloce controllo delle tappe da seguire: 1) inserire la banconota desiderata, 2) selezionare il numero della pompa erogatrice 3) erogare.
Dopo che Lia ebbe inserito 10 euro, Marella già aveva in mano una pompa a caso, ma la disposizione della macchina e quella della pistola erano tali che la “copula” tra i due elementi non avrebbe mai potuto compiersi.
Lia allora, atta a risolvere prontamente problemi di caratter

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Il risveglio di Jackie

“Ciao!... sì certo!... ciao, ciao, divertitevi! Sì che mi ricordo…ciao!”.
Le solite raccomandazioni e i saluti di circostanza accompagnarono la porta che Jackie si chiuse alle spalle, senza voltarsi nemmeno un momento.
Per qualche secondo il silenzio della villetta di periferia fu la colonna sonora della sua libertà, ora che i genitori, con sua sorella Annalisa, erano partiti per una vacanza di quindici giorni in un paese della Sardegna di cui Jackie non conosceva nemmeno il nome.
Libertà, libertà. Ampia scelta sulle cose da fare, ma soprattutto su come farle, gestirsele.
A ventuno anni non si poteva certo dire che fosse un bambino; il vivere in casa con i genitori era necessario durante gli studi universitari e non aveva certo ofuscato la maturità e l’indipendenza da giovane uomo che Jackie si incollava addosso tutte le volte che usciva di casa.
Si appoggiò con la schiena alla pesante porta blindata e si godette ad occhi chiusi la partenza del nucleo familiare, sperando che non avessero dimenticato niente che richiedesse un rapido ed imprevisto rientro.
Jackie ovviamente non era Jackie ma Giacomo, dal momento che era nato e risiedeva in un piccolo comune dell’Emilia Romagna; niente stelle e strisce, niente di esotico, ma portava comunque volentieri quel soprannome che gli era stato cucito addosso fin dalle scuole elementari.
Camminando verso la sua stanza non potè non ammirare lo splendido lavoro fatto da sua madre che, come se si avvicinasse una guerra, aveva preparato alla perfezione il fortino che Jackie avrebbe difeso e vissuto nelle successive due settimane, pulendolo da capo a piedi e rifornendolo di tutto il necessario.
Ovunque si girasse Jackie vedeva ordine, qualsiasi cosa cercasse con lo sguardo era lì: i soprammobili erano dritti, gli asciugamani in bagno erano puliti e piegati, saponi e confezioni di bagnoschiuma nuovi e pronti all’uso. I suoi cassetti non avevano mai visto tanta biancheria pulita e perfino la scarpiera p

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L'abbandono

Le sette e trenta. Tra poco vado, anzi è meglio che vada subito, sì, così trovo un posto per sedermi, è inutile perdere tempo, poi non trovo mai un minuto per fare qualcosa d’altro. Me lo dicono sempre tutti che è importante ritagliarsi degli spazi. Che so, per uscire con gli amici, per fare un bel giro in bicicletta. È una vita che non prendo la bicicletta ora che ci penso, la mia bella Daccordi blu, pagata una cifra, è giù in cantina a fare la ruggine. Fa niente, ora mi tolgo questo pigiama, chè non sta bene vagolare per casa in pigiama, poi la barba, un cappuccino e via.
Non ci vedo niente di male a rimanere in piagiama tutto il giorno, ma poi la sera non ci sarebbe nessuna soddisfazione a rimetterlo, intendo, a cambiarsi d’abito, a dichiarare a se stessi di essere pronti per andare a letto, non necessariamente a dormire. Dormire è un’altra cosa.
Fuori è ancora buio, filtra appena la luce opaca di un lampione dalle persiane tutte sconnesse. D’estate è impossibile dormire fino a tardi se non si sopporta la luce. Ma ora è meglio che mi vesta; raggiungo a tentoni l’armadio, non trovo nemmeno la torcia che tengo sul comodino, fa niente, ce la faccio lo stesso, è casa mia, saprò trovare l’anta di un armadio! Eccola, forse ci sono; scorro il legno con la mano finchè non trovo la piccola serratura, ci infilo un dito e tiro verso di me, affondo le mani nel buio ancora più buio di quell’antro e provo a riconoscere i vestiti dalla stoffa: lana, lana, cotone, ancora lana, cotone, un pile… ecco, questa è una camicia, ve bene la prendo, tanto una vale l’altra oggi; poi un paio di scarpe, le calze, un maglione. Ecco fatto. Esco dall’oscurità, vado verso il soggiorno, i miei occhi si abituano alla luce. È una piccola grana non tollerare la luce diretta, specie appena sveglio. Ma il vero fastidio è dover ripetere questa recita della vestizione ogni santo giorno. Ci si fa l’abitudine, dicono. Sarà, ma in vita mia non mi sono mai abitu

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MICHELA

Marco vide l’ora e premette l’acceleratore pensando che non fosse affatto carino far aspettare Irene stasera. Accanto al sedile, in un astuccio aperto brillava la pietra di un anello che lui si girava ad ammirare volta dopo volta. Le sarebbe piaciuto? Avrebbe detto di ‘’si’’?
All’improvviso un camion piombò alla sua destra e quando se ne accorse fu ormai troppo tardi. Spinse i pedali fino in fondo e il loro rumore sull’asfalto gli sembrò come l’urlo di una bestia spaventata quando fiuta il pericolo…
Ormai si era già fatto buio quando Marco parcheggiò la macchina nel parcheggio del ristorante dove aveva prenotato. Scese e si diresse verso l’entrata con l’anello in mano quando i fanali e il rumore di una macchina gli attirarono l’attenzione e riconobbe la macchina di Irene, corse verso di essa ma lei non lo vide e si allontanò con velocità. Marco vide l’ora ma l’orologio si era rotto, e lui pensò che fosse troppo tardi a causa dell’incidente e si vede che Irene l’aveva aspettato fino a quando non si era stancata e poi se ne era andata sicuramente offesa visto che non l’aveva neanche telefonata visto che il cellulare era rotto. Vide l’anello e gli dispiacque di non essere potuto arrivare in orario perché avrebbe voluto che fosse una serata importante che avrebbero festeggiato ogni anno. Ma lui non voleva arrendersi, adesso avrebbe preso la macchina e l’avrebbe seguita fino a casa. All’improvviso si sentì chiamare.
- Ehi Marco!
Si girò e vide una sagoma fragile e delicata che gli si avvicinava con passo leggero, e con la luce della luna sui capelli che dava un aria onirica.
-Non mi riconosci?
Lei si avvicinò.
- Michela?! Il dolce suono della sua voce saturò l’aria notturna, e lui ripensò dolorosamente che una volta quella risata apparteneva solo a lui.
- Michela!
Lei si avvicinò ancora di più, guardandolo negli occhi, sorridendo, lui sentì il suo cuore cominciare a battere rabbiosamente nel pe

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   2 commenti     di: suzana Kuqi


L'ULTIMO GOCCIO

Franky sedeva sulla sua comoda poltrona con un bicchierino di whisky in mano ed un bel sigaro cubano da assaporare pronto sul tavolino. Stava aspettando una persona.
Il camino era acceso, le fiamme sembravano danzare sulla legna come ballerine attraenti intenzionate a suscitare grande piacere e godimento. La luce della lampada da lettura illuminava il suo volto, quel volto che aveva sghignazzato tante volte di fronte alla vita ed ora era pronto a farsi l'ultima risata perchè “chi ride bene, ride ultimo!”
A parte quella fioca luce, il resto della stanza era immerso nell'oscurità, fuori faceva freddo, il vento batteva forte sulla finestra. Franky adorava gustarsi un buon bicchiere di whisky davanti al camino mentre imperversava una tempesta, era un modo per prendersi gioco del tempo, quel tempo dittatore che ti obbliga a prendere l'ombrello se piove e ad essergli grato se splende il Sole. Franky invece era diverso, Franky non voleva essere comandato da nessuno, Franky comandava e gli altri dovevano obbedirlo.
Franky non aveva amici, ma non aveva neanche nemici perchè prendeva le contromisure adeguate. Fare il suo mestiere era difficile, di nemici ne hai a migliaia, puoi trovarti contro i tuoi stessi fratelli, il tuo stesso sangue. Ma Franky non aveva né amici né fratelli, Franky non aveva genitori, Franky non aveva mogli né figli, Franky era solo.
Franky sapeva che gli affetti erano sinonimo di debolezza, lui invece doveva essere duro, doveva essere il “duro” e lo era stato per tanto tempo, forse troppo tempo, quel tempo che ora si era preso gioco di lui. Sì, proprio così, ora che lo vedevano debole e malconcio si sarebbero presi tutti quanti gioco di lui. “La vita è dura caro Franky!” pensava “E tu hai cercato di renderla più leggera possibile, pur sapendo di stare in equilibrio sopra un filo... vecchio temerario, te ne sei accorto solo adesso!”
In quella stanza immersa nell'oscurità solo il rumore del vento che sb

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