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Racconti del mistero

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Si chiamava come te

Chiuse la porta, piegando la sottile maniglia d'ottone, lentamente. La luce, proveniente dal corridoio che portava alla sua stanza, si fece sempre meno invadente, ritirandosi progressivamente, fino a un punto in cui oggetti e forme scomparvero. Muovendo timidamente le braccia, egli cercò invano l'interruttore. Eppure si ricordava di averlo visto lì, prima di uscire. Solo il rumore, improvviso, della cornice d'argento, fatta cadere con un colpo maldestro del braccio destro, gli restituì un poco di cognizione. Nella sua testa, in qualche sperduta palude, stavano impantanate le sue credenze più remote, quelle che ogni sabato sera smuoveva con rapidi quanto disorientanti sorsi, attaccato a quella 33 cl verde. Anche quella settimana aveva segnato una serata con il solito marchio, costituito da un trancio di pizza al taglio da Nando, divorata sul marciapiede antistante l'opaca vetrina, e una birra gelata bramosa di togliere il respiro. Si vedeva ancora vicino a Sandro, il quale era intento ad ascoltare il monologo di uno strano tizio, dall'accento slavo, di cui ovviamente non ricordava il nome. Lo straniero seguiva a cascata i suoi pensieri, cercando ma non riuscendo a raccontare una rissa che lo aveva visto protagonista di cui portava ancora un' evidente traccia sullo zigomo destro. Sandro ne era come attratto da quel taglio, come se fosse l'unica vera prova che desse un fondamento a quella serie impalpabile di parole che il suo interlocutore continuava imperterrito a vomitargli addosso. Cercava di non essere indiscreto, ma rimaneva anche alcuni secondi a fissare quella striscia rossastra vicino alla fronte, in silenzio, mentre quello, preso dalla foga della narrazione, gesticolava come un venditore ambulante di coltelli. Probabilmente ne aveva anche uno, nascosto sotto il giubbotto di pelle nera. A questa idea, Carlo sentì un brivido lungo la schiena, e fu come svegliarsi con gli occhi chiusi. Buio pesto. E si avvertì ancora in piedi nella sua stanza, sospe

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   2 commenti     di: Matteo Zanetti


I fantasmi del passato.

Mattina presto.
Malgrado non ne avesse più bisogno non riusciva a svegliarsi più tardi delle 7.
Mancanza di bisogno di sonno o indotto senso di responsabilità?
Se lo era chiesto tante volte; senza risposta, come tante altre domande.
Un’occhiata alla stanza, sempre la stessa.
Sorrise pensando al disordine che regnava nella sua casa.
Malgrado tutti i buoni propositi nessuno aveva come dono quello dell’ordine.
Una famiglia tutto genio e sregolatezza, pensò dirigendosi verso la cucina per prepararsi il primo caffè della giornata.
In una mattina simile di molti anni prima si era trovato davanti alla prima vera responsabilità della sua vita: comunicare la morte del fratello più piccolo al fratello superstite.
Lo aveva incaricato la zia da cui erano stati mandati la sera prima.
Una telefonata durante l’ora di cena.
I genitori che scappavano e gli lasciavano confuse istruzioni, l’arrivo dei nonni, una seconda telefonata che aveva fatto stare male il nonno, la corsa alla ricerca di una medicina per il cuore.
In quel momento aveva realizzato che il più piccolo della famiglia era morto.
Il trasferimento dalla zia e quella strana sensazione…… doveva sembrare tutto normale.
Passata la notte e arrivata la luce del giorno però il mistero doveva però essere svelato.
Era stato scelto lui. Non gli sembrava possibile. Ancora non aveva inteso cosa volesse dire MORIRE e doveva comunicarlo al fratello.
Lo aveva fatto. Aveva immaginato pianti, disperazione, recriminazioni. Invece nulla. Aveva continuato a giocare al piccolo flipper di plastica rispondendo un semplice “lo so’.
Come tante altre volte si trovò a pensare se e quanto questo lutto avesse modificato la sua vita.
Ma la caffettiera cominciava a borbottare.
Si versò un’abbondante dose nella grande tazza e prese a sorseggiare la bevanda bollente.
Una volta la prima tazza di caffè era necessaria per accendere la prima sigaretta della giornata.
Da tempo aveva smesso. Era una cosa

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una storia

IL VENDITORE DI CERTEZZE (secondo capitolo)

“Sì, la strada per Nulla è questa…ma sei sicuro di volerla percorrere? ”
“Perché mi fai questa domanda? ” chiesi.
“È risaputo che lungo questa via vi siano ostacoli apparentemente insormontabili, bestie feroci e fiumi di lava; c’è chi ha parlato anche di strani esseri ingannatori col corpo coperto da un mantello grigio e gli occhi di ghiaccio, capaci di pietrificarti e renderti talmente pesante da non riuscire più a risollevarti dopo la caduta. Se hai deciso di inoltrarti in quella selva di pazzi e alcuna certezza, preparati al non ritorno”.
Dapprima a stento intesi il vero significato delle parole pronunciate dal mercante: sembrava stesse quasi parlando di una specie di ‘terra di nessuno’, dove ogni gesto perde di significato e le parole non sono altro che foglie secche nella corrente. Un luogo in cui quando credi di essere libero, in realtà, attorno a te, qualcun’altro sta già costruendo alte barricate. In un secondo momento quei suoni fuoriuscirono dalla mia mente e, dopo averlo ringraziato, cominciai a camminare verso lo svanire dei miei dubbi.
Rimasi alquanto esterrefatto dalla velocità con la quale si dileguò tra le piccole calde casette colorate del paesino sulla costa, probabilmente così frettoloso di raccontare a chiunque del mio passaggio da dimenticarsi persino della fame che ore ed ore di duro lavoro gli avevano procurato; un cittadino in preda ad un attacco di panico, forse terrorizzato al solo pensiero di doversi trovare al mio posto anche solo per una manciata di secondi. Un mortale come tanti altri, timoroso di ciò che non conosce e tanto succube della vita da preferire una parziale consapevolezza di ciò che accade intorno a lui per evitare di metterla a repentaglio e che si crogiola nella sua ignoranza illudendosi, in questo modo, di poter proseguire il suo grande viaggio anche solo per qualche momento di più. Il classico amante della precaria stabilità, della

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   5 commenti     di: eleonora davoli


Giorni di follia

La grande nave illuminata viaggiava spedita sulle acque nere del Pacifico. I passeggeri sorridevano nei loro abiti eleganti e si godevano la serata di gala passeggiando tra il bar di prua e quello di poppa, passando per i tavoli verdi del casino al centro della nave...

Tre ore più tardi la scena che si presentava davanti ai miei occhi era completamente diversa. La tempesta aveva avvolto la nave all'improvviso, i tuoni erano insolitamente potenti e il loro suono era strano, un misto di esplosioni e sibili sinistri. Tra i passeggeri avanzava un presentimento e dopo un po' si diffuse un silenzio di attesa rivolto all'oscurità resa viva dai lampi. Poi, in un attimo, la nave si inclinò sotto la forza delle onde e la situazione precipitò vertiginosamente.
Fu una strage.
Non ci furono incendi o collisioni, ma la nave affondò in pochi minuti; molte persone non riuscirono a salire sulle scialuppe e affogarono nelle acque potenti.
Mentre la nostra scialuppa si allontanava vedemmo la nave che veniva inghiottita dall'oceano e poi un lampo, durato credo tre secondi, grazie al quale ci accorgemmo che sopra di noi c'erano delle nubi nere, basse, e sembravano muoversi come onde del cielo. Non demmo peso alla cosa e ci lasciammo trasportare dall'oceano mentre le altre scialuppe si perdevano nel buio, lontano dal nostro gruppo, composto da circa trenta persone, infreddolite e straziate dalla tragedia. Dopo un paio d'ore un'onda anomala rovesciò la scialuppa e ci costrinse a nuotare verso un'isola che avevamo scorto grazie alle prime luci dell'alba. Affogarono quasi tutti, tranne otto di noi, che riuscirono infine a raggiungere la costa. Appena posati i piedi a terra ci lasciammo andare in grida di gioia: "Siamo salvi, siamo salvi" disse Christie, una donna di circa quarant'anni che avevo notato la sera prima per il suo vestito rosso fuoco, un po' fuori luogo per una serata di gala. Le acque che bagnavano l'isola erano piene di alti scogli che non ci

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   2 commenti     di: Matteo Riccardo


Il cuore nero di Lucca

Era una fresca mattinata tardo primaverile a Lucca, la stupenda città medioevale, caratterizzata dalla presenza d'imponenti mura di cinta cinquecentesche, che racchiudono come in uno scrigno i fascinosi e turriti palazzi nobiliari e le preziose ed eleganti chiese in stile romanico pisano-lucchese.
Il tarchiato e muscoloso portalettere Luca Bonicelli si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore, nel suo appartamentino di Via dei Bacchettoni e sedette sul letto. Per la terza notte consecutiva aveva sognato di camminare per le vie del centro con uno strano sottofondo musicale, seguito e minacciato da una pantera bianca, mentre le torri cittadine si piegavano a fissarlo e i muri dei vetusti edifici si stringevano su di lui, per schiacciarlo e inglobarlo al loro interno. Stava ormai per essere soffocato nella stretta della nuda pietra quando si era destato. Si era trattato di un incubo tanto spiacevole quanto sconcertante. Guardò l'ora. Erano le 6, 30, mancava mezz'ora al richiamo della sveglia. Tanto valeva alzarsi.

A quella stessa ora l'ingegner Simone Benvenuti, cinquantenne smilzo eppur panciuto, i folti capelli completamente imbiancati, era già al lavoro nel suo studio, in via delle Conce. Vi si trovava fin dalle 6, 00, per apportare gli ultimi ritocchi a un progetto da presentare in Comune. Quel mattino, come spesso gli accadeva, si era alzato prima dell'alba. D'altronde aveva troppo da fare per sprecare tempo a letto. Non dormiva mai più di quattro o cinque ore per notte e quando, come accadeva in quei giorni, era parecchio indaffarato, se ne faceva bastare perfino tre. Tuttavia stavolta qualcosa in lui non funzionava. Provava un'insolita forma d'oppressione, di cui non sapeva spiegarsi l'origine. Sentendosi sbalestrato, interruppe il lavoro e s'affacciò alla finestra. Da quel punto si scorgeva solo il palazzo di fronte e, sporgendosi in avanti e voltando la testa di lato, un breve tratto delle possenti fortificazioni sormontate da alberi, ma con

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   14 commenti     di: Massimo Bianco


MICHELA

Marco vide l’ora e premette l’acceleratore pensando che non fosse affatto carino far aspettare Irene stasera. Accanto al sedile, in un astuccio aperto brillava la pietra di un anello che lui si girava ad ammirare volta dopo volta. Le sarebbe piaciuto? Avrebbe detto di ‘’si’’?
All’improvviso un camion piombò alla sua destra e quando se ne accorse fu ormai troppo tardi. Spinse i pedali fino in fondo e il loro rumore sull’asfalto gli sembrò come l’urlo di una bestia spaventata quando fiuta il pericolo…
Ormai si era già fatto buio quando Marco parcheggiò la macchina nel parcheggio del ristorante dove aveva prenotato. Scese e si diresse verso l’entrata con l’anello in mano quando i fanali e il rumore di una macchina gli attirarono l’attenzione e riconobbe la macchina di Irene, corse verso di essa ma lei non lo vide e si allontanò con velocità. Marco vide l’ora ma l’orologio si era rotto, e lui pensò che fosse troppo tardi a causa dell’incidente e si vede che Irene l’aveva aspettato fino a quando non si era stancata e poi se ne era andata sicuramente offesa visto che non l’aveva neanche telefonata visto che il cellulare era rotto. Vide l’anello e gli dispiacque di non essere potuto arrivare in orario perché avrebbe voluto che fosse una serata importante che avrebbero festeggiato ogni anno. Ma lui non voleva arrendersi, adesso avrebbe preso la macchina e l’avrebbe seguita fino a casa. All’improvviso si sentì chiamare.
- Ehi Marco!
Si girò e vide una sagoma fragile e delicata che gli si avvicinava con passo leggero, e con la luce della luna sui capelli che dava un aria onirica.
-Non mi riconosci?
Lei si avvicinò.
- Michela?! Il dolce suono della sua voce saturò l’aria notturna, e lui ripensò dolorosamente che una volta quella risata apparteneva solo a lui.
- Michela!
Lei si avvicinò ancora di più, guardandolo negli occhi, sorridendo, lui sentì il suo cuore cominciare a battere rabbiosamente nel pe

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   2 commenti     di: suzana Kuqi


Le porte si chiudono

L’aveva vista di nuovo, allucinante!
All’inizio gli sembrava sempre di confondersi, sempre all’angolo della visuale, sempre con la coda dell’occhio, e quando si girava, non c’era più.
Ormai era un’ossessione, da giorni, ovunque vedeva quella donna strana. Strana? No, neanche lui sapeva spiegarselo meglio. Era bella, ma sembrava…
Cavolo! Ho bisogno di trovarmi una ragazza! …In bianco e nero?
Arrivò al lavoro, entrò in ufficio, 72° piano, grafico pubblicitario, e stasera doveva assolutamente finire il lavoro, altrimenti il capo lo sbranava.
Eccola, vestita di nero? No, forse non era lei. Non era mai riuscito veramente a vederla, sempre e solo un’ombra, un movimento, uno sguardo, poi niente.
Va beh! Lavoro finito, meno male, anche stavolta il capo starà buono, però sono le sette e mezza e sono l’unico pirla dentro l’ufficio! Va all’ascensore, entra, lei è lì.
Le porte si chiudono, buio, lei lo sfiora, la lingua sulla sua bocca, la mano va sotto, erezione pazzesca, un attimo, la sente sorridere, un dito sulle sue labbra, le luci si accendono, ascensore al 10° piano, fa appena in tempo a riaprire gli occhi prima che le porte si aprano.
Pazzesco! Arriva a casa sconvolto, non riesce a pensare ad altro.
Cosa è successo? Ma è successo? Non è che improvvisamente sto impazzendo?
Sotto la doccia, cena, tv. No, non oggi. Apre le porte dello studio, si mette al computer e fa l’unica cosa che è capace a fare: disegna.
Cerca di fermare quell’immagine che ha di lei, quei frammenti, quel volto, quelle mani,
quella bocca.
Alla fine la vede, lì sullo schermo, ed è lei, sicuro, e gli sembra impossibile, uscita da un’altra epoca, con quel vestito grigio e nero, antico, il velo sugli occhi, ma è lei.
Va in Internet e manda quel disegno ovunque conosce, tutti i blog che di solito frequenta, lo appende a qualunque bacheca trova: “Qualcuno ha mai visto questa donna?”.
Va a dormire un po’ più tranquillo.
Al lavoro di nuovo,

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