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Riflessioni di uno scrittore che non è uno scrittore ma per sua sfortuna scrive e non sa che farsene (1)

999.

Se mi fossi finalmente deciso a vivere come Bukowski tutto sarebbe stato più semplice. Niente sbattimenti, vino, donne e porcherie varie. Ma non tutti hanno il coraggio di armarsi nella vita solo della semplicità e io ero io e questo era un gran problema.
Il 999 fu un anno astratto. Iniziava la fine millennio e sembrava la fine e l'inizio di tutto: il liceo si rigirava lentamente nel torpore dei suoi ultimi anni, la ragazza che amavo troppo assai era ormai persa per sempre, il primo libro, che avevo iniziato a scrivere a sedici anni, era steso troppo a cazzo, ma srotolava la storia più bella di cui avessi mai sentito parlare. Avevo una moto timida che irrompeva lungo le strade col grigio muso a punta in cerca di percorsi sacri da divorare, ma che, dinanzi alle statali che portavano chissà dove, misticamente tracciate sotto un sole esotico, abbassava la cresta dei suoi cinquanta di cilindrata e tremava per l'inafferrabilità del futuro, un gruppo di amici che giurarono che non si sarebbero mai lasciati corrompere dall'avidità del mondo e un ideale di conoscenza che si smistava in una miriade di affluenti che smaterializzavano qualunque significato di cultura.
Se avessi deciso di vivere come Bukowski, non mi sarei mai dato pena. Avrei mangiato e dormito con calma. A volte non avrei mangiato affatto. Avrei guardato tutto con noia, senza impazzire alla ricerca di un significato. Non avrei mai preso una decisione, tranne quella, appunto, di vivere nella libertà estrema. Tutto quello che avevo scritto riusciva a malapena a riempire uno zaino, ma io mi sentivo come se avessi steso almeno quanto lui.
Il 999 lo ricordo come fosse un unico lungo pomeriggio di fine estate, imprigionato in un involucro di calore assurdo che si diluiva fino all'inverosimile come se avesse una fonte inesauribile. Sembrava che avrebbe fatto tremendamente caldo per sempre. Che non se ne potesse uscire. E che io mi stessi arrendendo lentamente alle malie di Morfeo, progressivamente vinto da un sonno letargico attraverso il quale avrei potuto finalmente dichiarare: 'Ne parliamo domani, quando sarò sveglio'. E, nel lento dormiveglia in cui mi immergevo, ansimavo: 'Morfeo, che oscuro vai, non rivelarmi più al domani'.
Negli ultimi strascichi della veglia completai il primo libro, nel 999, nell'anno del gran casino, ormai assuefatto alle prime tempestose raffiche di sbadigli annichilenti mi trascinai nella stesura del secondo libro, nel 999, nell'anno del gran casino, sotto i vivi rampicanti che avevano ormai sconfitto l'inverno baciai ancora la ragazza che amavo troppo assai, nel 999, nell'anno del gran casino e nell'anno del gran casino feci l'amore per la prima volta con lei e fu un gran casino.
Agonizzavo alla tastiera di un computer cercando di capire quello che andavo scrivendo mentre riempivo fogli elettronici a raffica con il loop del canto delle cicale ripetuto fino allo sconforto e gocce enormi di sudore che mi inzuppavano le sopracciglia. Io scrivevo a torso nudo e non dicevo niente. Ascoltavo. Pensavo: scrivere è la mia strada. Ma dove porta? Non lo so.
C'era tutta una serie di ricordi, sfumati come fossero materia di sogni. Mi grattavo un chiappa e ascoltavo questi sogni. Erano un libro ma io non riuscivo a trovarne il nesso. Mi sembravano ricordi che venivano un po' a fatti loro, non avevano niente di unitario. Ma non potevo fare a meno di stenderli. Continuavo a schizzare le dannate pagine e schizzavo dentro di loro per scoprire dove stessi andando. Pensavo: scrivere mi salverà. Non andavo da nessuna parte, ma forse ci andavo perché stavo scrivendo.

 

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