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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte (6)

La mia base operativa per lanciare segnali verso il mondo era uno stanzino minuscolo in cui era posizionato solamente un computer con il suo mobiletto, due o tre mensole per i cd e la sedia per mettersi di fronte al monitor. Le ginocchia andavano incastrate al meglio contro un ripiano che reggeva i fili necessari per il funzionamento della macchina.
Lo stanzino era mutato negli anni. Quando ero più piccolo, ai tempi della macchina da scrivere, era un vero e proprio ripostiglio contenente due scaffali pieni di roba incellofanata e riposta dentro i cartoni. C'era lo spazio a malapena per entrarci e, per aprire la finestra dagli infissi rossi, bisognava spingere in dentro un cartone con tutte le proprie forze. Dal momento che era la stanza meno frequentata della casa, decisi che sarebbe diventata la mia.
Quando la conquistai, per prima cosa scoprii il modo per aprire la finestra. Poi ci posizionai di fianco uno sgabello e disegnai con un pennarello rosso una serie di pulsanti sul cartone di fronte. Conteneva una batteria di pentole mai utilizzate. E infine lo bucai con il jack di un gran paio di cuffie rotte con microfono annesso che mio padre mi aveva regalato. Lo stanzino divenne la mia stazione radio ed io ci passavo i pomeriggi pensando che le cazzate che dicevo potesse ascoltarle tutto il mondo. Era facile. Ogni volta che mi serviva un nuovo canale, lo disegnavo col pennarello rosso e diventava immediatamente operativo. A volte gli ascoltatori mi chiamavano in diretta lamentando di non prendere al meglio il segnale e di non sentire bene la radio. Io fingevo di girare alcune manopole. Adesso sentivano bene.
In quella stanza avevo letto il mio primo libro: Il mago di Oz. Mi sedevo a terra con la schiena appoggiata alla porta senza permettere intrusioni. Ero praticamente in una botte di ferro. Ogni tanto mia madre spingeva la porta e mi faceva scivolare col culo sul pavimento chiudendomi nell'angolo tra il legno e il muro. Mi guardava, mi chiedeva che cosa stessi facendo, si faceva passare un oggetto dallo scaffale e andava via scuotendo la testa.
In un secondo momento la vecchia radio fu smantellata per fare posto al computer. E io tornai accanto alla finestra rossa, seduto sullo stesso sgabello, a scrivere la trama di Una di quelle notti, seguendo uno schema a diagramma di flusso che avevo steso per ricordarmi come proseguire la storia, e, nello stesso stanzino, seguii tediosamente il vagheggiare sfinito dei ricordi che mi avevano permesso di comporre sbadigliando il mio capolavoro di non stile: Schizzando nel vento.
Nel nuovo testo che presi la fissa di scrivere, diedi una spaventosa svolta: abbandonai le storie metafisiche e qualsiasi forma di stile e, con la trovata geniale di far scrivere il libro direttamente a cinque amici analfabeti come fosse un loro diario, regredii la mia scrittura ai tempi dell'infanzia e stesi una bozza contenente un miliardo di errori grammaticali. Decisi che era perfetta. Nessuno aveva mai scritto niente del genere. Io non volevo scrivere cose banali. Le cose coincidevano. E mi presi la rivincita su tutti i professori che avevano corretto i miei temi di italiano e su tutti i tratti rossi che le correzioni avevano comportato. Parti fuori traccia, ammonizioni del genere: e la punteggiatura?!?, refusi, errori di sintassi, sviste su lettere grandi, consecutio temporum e tutto il resto, non avevano alcun effetto sul mio testo. E io me la ridevo e in aggiunta alla beffa che mi facevo della matematica del verbo, intitolai il mio testo: L'opera. Dentro c'eravamo io e i miei amici: lo scrittore piccolo piccolo, il ragazzo rosso problematico, l'amico dall'aria vagamente giapponese e lo scienziato.

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