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Gli altri Apologhi di Ulisse

Guido delle Colonne, Historia destructionis Troiae, l. XXXIII passim

"È vero, signor re, che dopo la conquista di Troia della quale evidentemente io sono stato autore, con le mie navi onuste di molte ricchezze d'oro e d'argento sottratte ai Troiani e con la compagnia di molti amici mi affidai al mare e navigando felicemente per più giorni approdai sano e salvo in un porto comunemente chiamato Mirna, dove sbarcai con i miei per godere della terraferma e lì al sicuro per qualche giorno indugiai senza che nessuno molestasse me e i miei. Poi mi allontanai da quel porto e con il vento favorevole arrivai sano e salvo nel porto detto Calastofago, dove insieme con i miei mi fermai per alcuni giorni. E poiché venti fallaci mi facevano pensare a tempo bello, lasciai il porto e navigai felicemente per i tre giorni successivi. Poi d'improvviso prese vigore una tempesta di venti e il cielo da sereno si fece subito oscuro: e con incerta navigazione mi sbattè ora qua ora là con una violenta tempesta. Alla fine mi costrinse a deviare malvolentieri in Sicilia, dove ho patito moltissime sofferenze e fatiche. C'erano infatti in Sicilia due re fratelli, dei quali uno si chiamava Stregone e l'altro Ciclope. E questi due re assalirono me e i miei. Vedendo le mie navi piene di tante ricchezze ne fecero bottino e si presero tutto quel che vi trovarono, numerosi e violenti come erano. E anche peggio, perché sopraggiunsero i loro due figli, molto valorosi e bellicosi, che si chiamavano Allifan e Poliremo. Questi assalirono i miei soldati, ne uccisero cento, catturarono me e Alfenore, uno dei miei compagni, e gettarono me e lui in carcere in un castello. Questo Poliremo aveva una sorella, bella e vergine, e Alfenore appena la vide ne arse di passione e fu preda totale di questo amore. Per sei mesi dunque Polifemo mi tenne prigioniero in Sicilia. Ma alla fine ebbe compassione di me e mi liberò con Alfenore. Questo Poliremo poi mi diede anche benefici e onori. Ma Alfenore per la violenza del suo amore si diede tanto da fare che nottetempo rapì al fiduciario del padre la sorella di Polifemo che amava e la portò via con sé. Quando i suoi lo seppero se la presero molto, perciò Polifemo di nuovo quella notte assalì me e i miei con molti armati e recuperò la sorella. Poi assalì me e mentre cercavo di difendermi gli cavai un occhio e con i compagni che erano sopravvissuti tornai alle navi e con loro quella stessa notte lasciai la Sicilia. E di là benché non volessi approdai direttamente nell'isola di Aulide. In quest'isola c'erano due sorelle, ragazze alquanto graziose, padrone dell'isola ritenute molto esperte nell'arte della negromanzia e nelle esorcizzazioni. Tutti i naviganti che la sorte trascinava in quest'isola, queste sorelle non tanto con la loro bellezza quanto con i loro incantesimi magici li avvincevano così strettamente, che non c'era alcuna speranza che chi entrava nell'isola potesse uscirne, ma erano dimentichi di ogni altra cosa al punto che se esse trovavano alcuni ribelli ai loro ordini, subito li trasformavano in bestie. Una dunque di queste, quella che evidentemente era più esperta in quest'arte, si chiamava per nome Circe e l'altra Calipso. La fortuna mi trascinò in potere di queste due, e Circe, evidentemente folle d'amore per me, preparò un filtro e con l'insidia dei suoi incantesimi mi sedusse al punto che per un anno intero non ebbi facoltà di andarmene. Allo scadere Circe rimase gravida e concepì da me un figlio, che poi crebbe e diventò un uomo molto bellicoso. Ma io non abbandonavo il mio proposito di partire: Circe irata se ne accorse e credeva di potermi trattenere con i suoi incantesimi. Io però che in quell'arte ero dotto come lei, con i giusti antidoti annullai l'effetto delle sue magie. E poiché l'arte è sconfitta dall'arte., le mie arti prevalsero sugli opposti tentativi di Circe tanto che con tutti i miei compagni superstiti partii, nonostante lei stesse molto in guardia. Ma a cosa mi valse quella partenza? Infatti mi affidai al mare e il vento mi spinse nella terra della regina Calipso, che con le sue arti avvinse me e i miei compagni tanto da trattenermi presso di sé più a lungo di quanto io volessi. Ma questo indugio non fu troppo noioso per me, per la bellezza straordinaria di quella regina e per i suoi teneri sentimenti con cui cercò di piacere a me e ai miei. Alla fine con il mio ingegno riuscii a staccarmi da lei, con grandissima pena però, perché le mie arti a malapena avevano avuto la meglio sulle sue. Poi navigando con i miei giunsi ad un'altra isola nella quale c'era un sacro oracolo che per concessione della potenza divina dava a chi li chiedesse responsi certi e veri. A quest'oracolo io chiesi accuratamente molte cose, e, tra queste, cosa succedesse delle nostre anime una volta uscite dal corpo. Di tutto quello che chiesi ebbi un responso certo, tranne sul destino delle anime. Lasciato l'oracolo, e profittando del vento che pareva favorevole, ne fui spinto per un luogo pieno di molti pericoli. Giunsi infatti in quel mare nel quale si muovono le Sirene, che sono grandi mostri marini. Dall'ombelico in sù infatti hanno l'aspetto di donna, con un volto virgineo; dall'ombelico in giù invece l'aspetto di pesce. Esse cantano meravigliosamente e con modulazioni così dolci che riterresti superino l'armonia dei cieli, e i poveri naviganti, quando giungono da loro, sono tanto presi dalla dolcezza del loro canto che calano le vele delle loro navi, buttano i remi in mare, astenendosi del tutto dalla navigazione. Quel canto infatti inebria gli animi di quei poveretti sicché essi sentendolo si liberano da ogni peso e la loro dolcezza accarezza tanto il loro udito, che, dimentichi quasi di sé stessi, non desiderano cibo, fin quando nei loro animi si insinua un sopore che li assorbe tutti in un sonno profondo. Quando le Sirene si accorgono che essi dormono, rovesciano le navi prive della guida del nocchiero e le affondano, e i naviganti sono sommersi nell'infelice naufragio nel pieno del sonno. M' imbattei dunque in queste Sirene, e perché i miei compagni con me non venissero coinvolti in un simile fatale sopore, con le mie arti otturai così tenacemente le orecchie mie e loro, che nulla assolutamente sentendo del loro canto io e i miei compagni le debellammo e ne uccidemmo più di mille, sicché sani e salvi passammo per i loro domini e fummo liberi da quel pericolo. Poi navigando un infelice caso ci spinse tra Scilla e Cariddi e benché tra i loro vorticosi pericoli ci siano più di quindici stadii, più della metà delle mie navi fu inghiottita da quel gorgo marino. Perciò i miei compagni navigando tra esse perirono naufragando nel gorgo di quel mare. Io invece con l'altra metà delle mie navi, scampato al gorgo di quel mare, giunsi navigando in Fenicia, dove c'era un tiranno di quel mirabile popolo che assalendo me e i compagni uccise di spada la maggior parte dei miei lasciandone superstiti pochi. Tutti i beni che avevo con me nelle navi me li strapparono quegli uomini, mi catturarono e chiusero in dure carceri con me i superstiti tra i miei. Infine, con l'aiuto degli dèi, mi liberarono con quelli che avevano rinchiusi con me, senza restituirmi nulla delle mie cose. Ridotto perciò in somma povertà feci il periplo da sud e finalmente approdai in questa terra, povero e mendico, come mi vedi. Ecco, ti ho raccontato tutte le mie vicende da quando sono partito da Troia e perché mi sono ridotto in povertà".

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