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Un pomeriggio che era d'inverno

Il telefono squillò fino all'arrivo della voce meccanica della segreteria, ma il ragazzo non lasciò nessun messaggio. Un sms annunciava il posto; lì l'avrebbe attesa come sempre.
Nel pomeriggio, la luce era scarsa e la strada già buia si rompeva in ombre solide costruite dai fari delle vetture. Si girò intorno in un silenzio di voci e guardò in alto il filtro lucente della città diffuso tra le nuvole, distante e non curioso.
Aveva camminato piano per arrivare al luogo, girando intorno ad angoli di case, quasi per disperdersi in una fuga. Aveva incontrato un gatto investito da un'auto; era riverso agonizzante in una macchia di sangue. Strideva in un lamento. Un occhio era stato espulso dall'orbita e l'altro aveva ancora la forza del dolore.
Era rimasto turbato. Nell'oscurità molle aveva sentito il bisogno di piegarsi sulla strada e toccare la bestia lorda di sangue e premere con forza sulla sua carcassa d'ossa frantumate.
Una voce aveva gridato parole che divennero un suono sgraziato che lo fece scappare via imbarazzato. Aveva il sangue del gatto sulle dita e sentiva ancora il contatto con la sua pelle lacerata.
Intinse col sangue il buio della tasca, premendo sulla coscia.
Raggiunse il luogo dell'appuntamento.
Rimase poco sulla strada. Dietro il muro a secco si sentì più protetto. Quell'immagine del gatto straziato non lo abbandonava; quelle viscere distese sull'asfalto mosse dal battito del cuore gli diedero la nausea.
Lo avrebbe raccontato a Lei appena fosse arrivata per provocarne l'orrore. La immaginò con la sua espressione di dolore, come quando le faceva bruciare le guancie con i suoi schiaffi per liberare la sua mente dall'agonia del suo desiderio.
Lei arrivò ma non riusciva a vederlo, ma si sentì chiamare e segui la voce, facendosi prendere dalla sua mano viscida di liquido seminale.
Lei non sentì che il battere del suo cuore e non la nausea di morte che assaliva il suo amico, risalendo dalla punta della lingua al suo stomaco.
Lei sentì il muoversi delle mani percuotere il suo corpo, sfregiare il suo viso, distorcere le labbra; annusava la sua pelle scossa da una danza feroce imbevuta del suo sanguinante stordimento.
Lui urlava stringendosi le labbra mentre lei lo scacciava da sé, implorando pietà. Il ragazzo impugnò una roncola che volò fino a scinderle la pelle lasciandola vomitare sangue. Saccheggiata del mattino, lei cadde nel ventre del tempo, sgusciata del suo involucro.
Il ragazzo, spinto dalla lugubre vela del suo cuore inossidabile, guardò quel corpo, la pelle intrisa di terra e foglie legate dal sangue, il viso costretto a esprimere un dolore già passato con le palpebre aperte in una visione di morte.
Ma il ragazzo non vedeva che carne immobile, un corpo vuoto sotto il dominio delle sue mani.
Il ragazzo trascinò, spinse, coprì prima di fuggire nella sua stanza. A dormire nella bonaccia d'un mare fluido come il sangue nella piaga sonora di una invocazione pietosa.
La ragazza volava nel vento in una squamosa prateria di nuvole sanguinanti, vagabondando nuda su spalanchi di tenebra.
Il ragazzo respinse le sue carezze, i suoi baci. Quella cattiva carne, quella carne triste e malata risaliva sul suo corpo, facendolo bruciare.
Il bambino prese fuoco con le fiamme che si contorsero tra le sue labbra, solcarono lingua e gengive penetrando nello stomaco e nel cuore. La fiamma s'arricciò nelle orbite sbulbandole.
Quando i carabinieri lo presero dalla sua culla incendiata, il ragazzo guardò le fiamme sui loro cappelli e sorrise come un idiota, portandosi il suo pezzo di carne nuda legata con nastro adesivo all'anima.

 

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