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La stanza di ritiru

Mi piace sottoporre alla vostra attenzione un fatto importante anche se marginale nell'economia del libro che state leggendo. Ogni scrittore ha la sua cucina, ha preferenza per alcuni piatti - Montalbano-Camilleri ama i piatti cucinati nei piccoli locali, suggerendoci a volte ricette che provengono dalla tradizione popolare - Una lettura attenta alle ricette, ai pranzi, agli spuntini in un testo letterale può darci una chiave di lettura per meglio comprendere le situazioni sociale che l'autore tratta, i rituali, le motivazioni culturali e sociali. È veritiero che molti autori parlando dei cibi, allentano la drammaticità del racconto, si concedono brevi pause, pennellando quei momenti di bonomia, di piacere e di benessere; l'autore-soggetto del racconto si mostra ai nostri occhi nel suo lato migliore, quello più vero ed i pensieri vengono lasciati fuori la porta del ristorante, della cucina, del chiosco. Lo Zu Nenè sentenzia: La minchia e la panza nun vonnu pinseri!
Il cibo e la cucina modellano gli esseri umani, noi siciliani poi, abbiamo un vero culto del cibo ed esso ha un senso se lo possiamo dividere con gli altri, se possiamo offrire ai nostri ospiti buoni piatti, ottimamente cucinati. Vogliamo offrire il meglio e non tanto perché siamo generosi -può anche essere vero- ma più veritiero è il fatto che offriamo il cibo, perché ci piace dimostrare agli altri il nostro benessere raggiunto, la bravura nel prepararlo. Molte volte il cibo lo mostriamo, a volte lo facciamo intuire. Noi, esterni ad una grande casa, annusiamo quelle pareti per percepire l'odore del cibo che la dispensa di quella casa, attraversando i muri, lascia passare all'esterno.
I giovani trentenni non hanno più memoria di un ambiente domestico di molti anni fa, una stanza della casa, dove venivano conservati il cibo, le provviste, le sementi, tutte quelle cose che davano il senso della sicurezza di una famiglia e nello stesso tempo la ricchezza. Forse ancora in tanti ricordano come passando vicino ad alcune case venisse fuori un persistente profumo di formaggio, di vino, di carrube e altro ancora. Per il mondo contadino il cibo non era quello che veniva consumato, piuttosto quello che stava chiuso e ben controllato dentro la stanza al buio, ben chiusa a chiave e questa custodita gelosamente dalla padrona di casa. Grazia Deledda nei suoi romanzi descrive molto bene questo mondo.
Ogni volta che vado ai ricordi della mia infanzia ritorno sempre al Vicolo Vivacqua dove i miei nonni materni avevano la casa. Mia nonna era ammalata così io e mia madre passavamo molto tempo in quella casa; lei accudiva la famiglia, io giocava nel cortile. Quando mia madre andava nella dispensa io la seguivo; era una scoperta che si rinnovava perché ad ogni stagione gli odori e i cibi li dentro cambiavano. La stanza veniva tenuta rigorosamente al buio. Sicuramente gli odori più forti erano in autunno quando la stanza era piena zeppa di ogni ben di Dio. La famiglia di mio nonno erano stazzunara ed agricoltori. Aprendo la porta della stanza veniva fuori un'ondata di odori; il primo a colpirti era sicuramente l'odore delle carrube a seguire quello del mosto. una volta che le narici si riempivano di quegli odori lentamente cominciavo a percepire altri profumi. intanto mia madre aveva già provveduto ad aprire la finestra e la luce veniva a colpire mille cose buone, cibi, frutti, semi, ecc. ecc..
Alla luce del giorno la stanza sembrava meno ampia di quando avrei immaginato. A parte un corridoietto in mezzo alla stanza, addossati alle pareti c'erano cannizzi pieni di grano, zimmili che traboccavano avena ed orzo, fave e poi le botti del vino, le giare con l'olio, vicino la finestra quasi sempre c'era un mucchio di meloni verdi che i miei zii coltivavano assieme al cotone, sacchi di cotone e di mandorle e poi ancora cartedde piene di carrube. dal tetto si calavano delle corde con dei ganci in legno a cui venivano appesi panieri pieni guleri di fichi secchi, aromatizzati all'alloro ed al rosmarino. Vicino alla porta c'erano dei giarruna pieni di olive in salamoia e un tumazzu piacentinu invecchiato il cui aroma tendeva a primeggiare sugli altri. Anche le giare con la farina venivano conservate in quella stanza. Mia madre prendeva il necessario, chiudeva la finestra e la porta e quel bellissimo mondo scompariva alla mia vista, alle mie narici; si sarebbe rinnovato la prossima volta, ancora piacevole ancora nuovo e differente.

 

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