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La vacca che ingrassava troppo

Arrivava tutti i giorni in ufficio puntuale alle 9:00. Lei era il capo, senza mezze misure o mega presidenti a cui dar conto. Il suo abbigliamento kitsch era diventato proverbiale. Ogni giorno cercavamo d'immaginare cosa potesse indossare. Sempre peggio. Le più ambiziose cercavano d'imitarla, ma non riuscivano a far meglio, o peggio a seconda dei punti di vista.
In quell'ora di tranquillità tra le 8:00, orario d'entrata, e la sua venuta, ne approfittavamo per scambiare qualche chiacchiera, opinioni. Una terapia di gruppo che ci permetteva di tirare avanti. Con lei presente non si poteva parlare, distrarsi, o andare in bagno più di una volta. Guardava dal suo ufficio le nostre scrivanie. Ci controllava, si accertava che lavorassimo. Aveva trasformato le ore di lavoro in ore di angoscia. Ci procurava ansia. Ci teneva appesi ad un filo, pronta a bruciarlo.
Era opinione diffusa che il padre fosse stato un gerarca nazista e la madre una suora. Quando passava vicino a noi non ci degnava neanche di uno sguardo, di un saluto. Ma noi si, la degnavamo di uno sguardo augurale e un saluto estremo.
La sua venuta era preceduta da una fragranza piacevolissima, di quelle che trasmettono sensazioni, piacere. Di quelle che lasciano immaginare bellissimi corpi con addosso solo qualche goccia di profumo. Leggera brezza nei capelli, passo leggero e sensuale, bacino ancheggiante e seno che indica la via. Quel profumo c'inebriava, ci eccitava. Poi appariva lei...
Il suo ufficio era in fondo allo stanzone, e per arrivarci doveva percorrere un corridoio delimitato dalle nostre scrivanie. Io ero all'estremità di questo corridoio, nella posizione più lontana dal suo ufficio: ero ultimo nella scala meritocratica; ero ultimo nelle sue simpatie; ero l'ultimo arrivato; ma ero il primo ad essere visto, controllato e oggetto di attenzioni. Nulla era lasciato al caso.
Quando ci passava vicino non la vedevamo mai in volto, e non ci restava che guardare quel suo grosso culo ancheggiare. Ne andava fiera, anche se era enorme e castigato in abiti sempre più attillati. I pantaloni erano come incollati sulla pelle. Il passo era pesante e scomposto e il suo ancheggiare le faceva quasi toccare le scrivanie con i fianchi.
Ci divertivamo a lasciare le pratiche sui bordi, in modo che fuoriuscissero alcuni centimetri, e scommettevamo sulla possibilità che le toccasse coi fianchi. Il suo passo pesante faceva leggermente tremare il solaio, come piccole scosse di terremoto. Avevamo creato un sistema d'allarme per monitorare i suoi spostamenti: bicchieri d'acqua che producevano cerchi concentrici ogni volta che si muoveva.
Il corridoio era lungo una quindicina di metri e largo due, e lei lo percorreva in pochi secondi. Quel suo culo enorme sembrava diventare sempre più grande. Più si allontanava da me e più si allargava. A metà già toccava con estrema facilità i bordi delle scrivanie. Verso la fine doveva girarsi di fianco, leggermente, per superare le ultime due postazioni di lavoro. Non riusciva neanche più a passare nella porta del suo ufficio, che diventava sempre più piccola rispetto al suo culaccione adiposo, che cresceva e prosperava come frutti chimicamente alterati. Nell'ufficio lo custodiva in un'enorme poltrona di pelle nera. Morbida. Comoda. Dietro quella scrivania, sorretta dal suo culo, i suoi occhi scrutavano cosa accadesse al di là del vetro, al di là del suo mondo. Lei, il culo e il telefono. Conversazioni a voce altissima, grasse risate, falsi complimenti. Era tutto sotto controllo. Il suo grasso culo controllava tutto.

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