Lo ricordo come una festa
Si andava a Pianventena con la cinquecento gialla di mia madre, una maglia di lana ed il fumo che usciva dalla bocca giocare e fingere di essere un camino, le guance rosse e fuori dal finestrino i quadri che autunno aveva dipinto. Con la bocca sporca di marmellata di fichi e di more aveva intinto il pennello nel colore e rubato gli acquerelli ad un cielo, in quei momenti avrei voluto essere un pittore.
Dietro ogni curva un disegno d'autunno, fuori da quel piccolo abitacolo che conteneva la felicità e canzoni... non era triste novembre, cominciava già a spargere la nebbia qua e là e i campi diventavano distese da cui spuntavano le mani degli alberi quasi spogli e l'arancione acceso dei cachi che qualcuno aveva mandato per fare colore, aspettavano che anche l'ultima foglia fosse andata via per dare inizio a quel banchetto di crema che si scioglieva in bocca e nel palato e alla fine una piccola linguetta viscida che ho sempre pensato fosse il loro cuore, prezioso non si sprecava niente, gustoso come un gelato, da mangiare con le mani o con il cucchiaino.
Eccole le prime case in quella pianura romagnola, le staccionate, i giardini guardare la strada e la nostra corsa, eccolo bianco con un cancello di ferro nero... il cimitero.
Solo entrando là la festa finiva, mia madre ci diceva di non parlare e di camminare in punta di piedi fra visi che ci guardavano dalle foto passare e mi colpivano i bambini e i neonati e una statua di ferro sopra una tomba che cercava in vano di strappare quelle catene, il viso di mio nonno che non avevo conosciuto, una spugna per pulire e un mazzo di fiori e un brivido di vento che ci portava fuori.