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La Maledizione di Gutenberg

Un libro è come un viaggio.
Prima di iniziarlo, sarebbe bene
farsi un'assicurazione sulla vita.





La stanza era al buio. Solo un raggio di sole, compatto come un laser, entrava dal piccolo buco al centro di uno scuro. Nel suo procedere senza indugi, andò a colpire uno specchio, rimbalzò contro l'elsa di una spada appesa alla parete, per stamparsi dritto dritto sulla palpebra sinistra di Giovanni Vanishing, ancora immerso in un sonno comatoso. Infastidito da quel calore, l'uomo, nel tentativo di scacciarlo, cominciò ad agitare in aria la mano, come si trattasse di una mosca. Visto che ogni sforzo risultava vano, alla fine si arrese, e aprì, seppur controvoglia, prima un occhio poi l'altro. Rimase così, le pupille sbarrate, per alcuni, lunghi minuti. Mentre il cervello tardava a carburare.
Doveva procedere a piccoli passi, per evitare la solita emicrania. Prima di tutto era di vitale importanza realizzare, in modo inequivocabile, che non stava sognando. Poi, mettere bene a fuoco dove si trovava, visto che la schiena dubitava fortemente trattarsi del letto di casa. Quando la nebbia che avvolgeva i solchi dei due emisferi si diradò, le sinapsi fecero contatto, i neuroni cominciarono a comunicare, tutto fu chiaro. Si trovava a Magonza. Quanto al perché, lo scopriremo in seguito.
Uscito da quello stato di incertezza, si accorse di avere un grosso peso che metteva a dura prova il diaframma. Accese la luce, abbassò lo sguardo, e vide, davanti a sé, un tomo aperto, rovesciato, che si ergeva al centro del suo corpo come una montagna. Tanto voluminoso da inibirgli il panorama dal pisello in giù. Era il libro che stava leggendo prima di sprofondare nel sonno. Una mappazza di oltre duemila pagine. Tutte le certezze acquisite fino a quel momento entrarono improvvisamente in crisi. Anche perché la cosa si stava ripetendo, sempre identica, già da alcune mattine. Il cuore cominciò a pompare a mille. Calma e sangue freddo, si disse. Ricapitoliamo... Adesso doveva rifare il percorso, convincersi di nuovo di essere lì, non solo in spirito, ma in carne e ossa. Si toccò il petto. Pizzicò prima la guancia, poi un capezzolo. Infilò una mano nei boxer. Rovistò un po' tra quelle reliquie. Pensò che magari, per trovare conferma, avrebbe potuto gridare: - Miss K... Miss K... Miss K! - Come usava abitualmente chiamare, un po' goliardicamente, Frau Kunigunde che, non capendo il doppio senso, sorrideva come una bambina di settantanni - La prego, entri. Le dispiace mettere una mano qui dentro, e dirmi se tutto è conforme? Io non mi ci ritrovo mica, sa! - Ridacchiò tra sè e sè, non senza provare un po' di vergogna per quel cedimento al suo lato più infantile.
Proprio in quel momento, colmo della sfiga, la luce si fece tremula. Dopo un secondo, la lampadina esalò l'ultimo barbaglio. A questo punto si alzò, tentò di guadagnare il bagno nella semioscurità. Ma dato che l'assetto non era ancora perfetto, col mignolo del piede sinistro andò a sbattere contro la gamba dello scrittoio. L'urto fu cosi violento che non riuscì a trattenersi : - Ahiaiahi, ahiaiahi... ahio, ahio, ahio... ohi, ohi, ohi... uh, uh, uh... cazzo, cazzo, cazzo... puttana vecchia, porca, troia... te, tua nonna, e quella vacca della zia del babbo... Madonna bo.. Lady Gaga e Saint Tropez... uhi, uhi, uhi... boia che male! Nonostante quella valanga di versacci e scomposta sequela di moccoli, tutto sommato, era contento. Sì, perché il dolore era la riprova che lui c'era. Era lì. In corpore vili et claudicans. Ma c'era.

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