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Una Bricila della mia vita ( seconda parte)
(Seconda parte)
Una briciola della mia vita
Per la prima volta non fu mia madre a svegliarmi, con le sue dolci carezze, ma il vice direttore che continuave a gridare: sveglia, sveglia, sveglia!
Scesi dalla branda e andai alla finestra.
Anche il sole stava alzandosi dietro al monte mentre a valle la nebbia pian piano si dissolveva ed appariva il fiume Trigno che continuava la su corsa verso il mare.
Mi unii agli altri che si precipitavano verso i bagni, dove c'erano cinque rubinetti a disposizione per potersi lavare mentre noi eravamo circa mille.
Dovetti fare la coda e quando ve ne fu uno libero mi lavai ben bene, con l'acqua che era quasi ghiacciata. Ritornai in camerata, mi vestii e seguendo gli altri mi trovai nella cappella per le preghiere quotidiane. Ad un certo punto della Santa Messa Don Gianico fece una predica.
Il suo modo di esprimersi mi sbalordí. Era un grande nel predicare e facendo paragoni ci dava molti consigli utili per la vita futura.
Poi tutti in refettorio per la colazione, finita la quale, fuori, in fila per andare a scuola, distante poco piú di un chilometro.
Strada facendo, in discesa e a gradoni, si parlava dei professori, alcuni molto bravi e comprensivi, a quanto dicevano, altri molto severi.
Giunti a scuola l'istitutore che ci accompagnava mi presentò ad essi e cosí incominciò la mia vita scolastica a Trivento, un paesino di poche anime, costruito sopra un cucuzzolo che guarda sul fiume Trigno. In pochi giorni mi ambientai al modo di vivere in convitto e feci conoscenza con dei ragazzi che venivano dalla Basilicata, altri, dall'Abruzzo e dallo stesso Molise.
Alcuni di loro mi dissero che un certo R. G., di Termoli, che frequentava la seconda media, picchiava molti ragazzi se non lo assecondavano.
Chiesi loro di indicarmi quel tipo e alla prima occasione lo fecero.
Era un ragazzo alto fisicamente e piú grande di anni, poiché aveva ripetuto la prima media e stava ripetendo la seconda, muscoloso che a molti faceva paura.
Aveva i capelli castani scuri appena ondulati e pettinati all'indietro e un neo sulla guancia sinistra.
Indossava un jeans dal quale pendeva un ciondolo, con un temperino e due piccole chiavi, forse della sua valigia, ed un maglione molto pesante, fatto a mano, si vedeva,
con qualche difetto.
Non persi l'occasione per avvicinarlo.
Quando ci trovammo a tu per tu mi guardó fisso negli occhi per intimorirmi.
Non ci riuscí perché lo ricambiai con uno sguardo piú duro del suo.
Mi disse: vuoi fare il forte? Al che io risposi disinvoltamente: sei tu che fai il forte, io lo sono.
Anzi, giacché ci siamo, ti consiglio di starmi alla larga e di lasciare in pace i ragazzi che fino ad ora hai picchiato senza motivo alcuno.
Mi guardò ancora per un po', poi abbassò lo sguardo, si girò e mormorando si allontanò.
Tre o quattro ragazzi, che avevano osservato il tutto, mi vennero a stringere la mano,
in segno di ringraziamento, per aver avuto il coraggio di affrontarlo a viso aperto.
Da allora tutti mi rispettavano, anche qualche vittima che frequentava il magistrale, quindi ragazzi che erano tre o quattro anni piú grandi di me. Dopo qualche giorno, andando a scuola, in fila come al solito, il Rossi, scalando di posto in posto, mi si avvicinó e disse:
senti, io e te dobbiamo essere amic.
Gli domandai: perché? E lui: quí in convitto il mangiare è scarso. I miei genitori ogni settimana mi portano un pacco pieno di tante cose caserecce, che quí molti possono solamente sognare, ed io sono disposto a condividerle con te.
A quell'offerta io risposi che avrei accettato solo se avesse in futuro lasciato in pace i ragazzi, che spesso aveva offeso picchiandoli, e chiedendo loro scusa.
Egli accettó. Chiese le dovute scuse, poi mi si riavvicinó e mi tese una mano.
Diventammo amici e non ci fu piú tra me, lui ed i ragazzi, nessun frainteso perché imparammo a volerci bene.
Un giornoDon Pasquale, il cappellano, mi fece sapere da un compagno di scuola, di volermi parlare.
Io impaziente di sapere cosa volesse mi presentai a lui. Stava suonando il piano, quando bussai alla porta dove lui soleva incontrare i ragazzi quando ne avevano bisogno.
Mi pregò di entrare e quando lo feci mi accolse con un inchino, tenendo la mano sinistra poggiata sul petto. Io feci altrettanto, poi mi inginocchiai per baciargli la mano.
Dopo i doverosi saluti, mi chiese se mi piacesse la vita in convitto e poi cosa facessero i miei genitori. Dopo aver parlato insomma del piú e del meno si rimise al piano e scivolando sui tasti con le sue dita, suonò una canzone che avevo già sentito ma che in quel momento non ricordavo.
Su quelle note si mise a cantare. Lo ascoltai con tanto di meraviglia,
era bravissimo. Quando finí , con un acuto molto alto, gli feci i miei complimenti.
A quel punto mi chiese se ero disposto a far parte del coro del convitto.
Ero talmente preso dall'emozione che quasi balbettando gli risposi di essere a sua completa disposizione, ma non ero certo di potercela fare. Con pazienza e garbo, con gentilezza rara ed esperienza, mi pregò di sedere al suo fianco.
Sfiorando i tasti mi parló del pentagramma, delle note, delle pause e delle durate.
Io sinceramente in quel momento non ci capii un granché e lui se ne accorse.
Non preoccuparti, mi disse, prova adesso a fare questa nota con la tua voce
Provammo la scala musicale. Io seguii i suoi consigli e dopo un'oretta mi disse che avrei potuto fare bene perché avevo una bella voce.
. Nei gioni che seguirono incominciai a cantare nel coro e devo dire che mi divertivo non poco. I giorni passavano tra studio, con alti e bassi e scherzi leciti e a volte un pó esagerati ma tutto sommato si stava creando un clima più piacevole di quello che avevo trovato.
Ricordo che una volta a scuola ci dissero di stare calmi perché il professore di matematica sarebbe venuto piú tardi.
Da quel momento ognuno fece un p' quel che più gli piaceva, io peró mi comportai da buon scolaro e pregai i miei compagni di non esagerare.
Ad un tratto qualcuno, dalla finestra, mi lanció un biglietto arrotolato in faccia, prima di cadere sul pavimento a che poi raccolsi.
C'era scritto cosí: Ciao, non so ancora come ti chiami. Vorrei dirti tante cose però non riesco ad esprimermi. Ogni giorno quando andate a scuola ti vedo. La notte ti sogno.
Insomma mi piaci. Che ne dici di incontrarci? Luciana.
Io rimasi di stucco ed il mio cuore prese a battere in modo talmente forte che sembrava impazzito. Vedendomi poi tutto arrossito, i miei compagni, che avevo dimenticato per un attimo, si misero a ridere e a sfottere un po' mentre cercavo di immagginare chi potesse essere la ragazza che mi aveva lanciato quel biglietto.
Il campanello suonò e tutti, come impazziti, corremmo verso l'uscita.
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5 recensioni:
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Anonimo il 21/09/2013 08:28
Racconti in modo davvero coinvolgente. Bello il carattere tuo che hai fotografato. Un elemento, però, mi ha un po' stupito: che una persona come Te si sia <inginocchiato> nel baciare la mano di quel prete...
- Mi accoro al coro e aggiungo solo i miei più vivi complimenti.
Anonimo il 17/09/2013 09:06
Mi complimento con te, bellissimo il tuo racconto, una bellissima testimonianza di vita di come l'hai affrontata...
- Un racconto ben stilato da una scorrevole lettura che trascina il lettore fino all'ultima pagina.. spero che sia una vera storia di vita se fosse il contrario , vanno i miei complimenti per la tua fantasia
Anonimo il 16/09/2013 16:25
Un racconto coinvolgente che trascina il lettore e lo sprofonda in quella vita di collegio che io personalmente non ho provato ma che mi ha ricordato alcuni aspetti della vita militare. Bella scorrevolezza e linearità di esposizione donano a questo brano una facilità di lettura che pare quasi si svolga da sé, nel nostro sentire. Aspetto il seguito, ovviamente. Un saluto.
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