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San Giorgio-parte terza

Profondo ammiratore e servo devoto di Santa Madre Chiesa, la prima azione del cavaliere fu quella di scendere da cavallo prima di accostarsi ai due ecclesiastici, operazione che gli permise di attendere alla debita distanza che la folla si diradasse del tutto. Avvenuto ciò si diresse, questa volta con passo calmo e quasi interrotto, verso i due uomini, che lo notarono già da lontano.
Ora si poneva il dubbio sulla precedenza degli omaggi, in quanto prediligere uno sull’altro avrebbe potuto causare malintesi e pregiudiziali antipatie. Optò per la soluzione più astuta. Giunto in prossimità dei due uomini, si inginocchiò e cominciò a declamare con voce sicura : “ Credo in un Solo Dio, Padre Onnipotente…”, a tali parole, ci fu un cambiamento di espressione da parte di tutti e due i personaggi : quello in piedi alzò un sopracciglio ed inclinò la bocca in uno specie di sorriso stupito, frammisto a compiacimento incredulo, l’altro, sempre accovacciato al lato del piedistallo, inclinò leggermente il capo ed emise un suono che pareva integrare nel suo significato disillusione e scherno. Uguale fu la successiva azione di tutti e due, che fermarono la declamazione di Giorgio, in particolare l’uomo in abito talare disse: “Non siamo in tempo di eresia, cavaliere, non c’è bisogno di proclamare il Nostro Santo Credo, ma apprezziamo il tuo desiderio di mostrare devozione”, l’ altro aggiunse: “siete un chierico di qualche ordine combattente?”. Giorgio, mantenendo sempre la posizione inginocchiata, guardava i due personaggi alternativamente, inclinando le pupille sotto la fronte agrottata, col capo reclinato in avanti, riflettendo a chi dei due dovesse per primo rivolgere la parola. Alzandosi in piedi lentamente, decise di mantenere una linea di equilibrio: “Il Credo è sempre il miglior segno di riconoscimento per chi opera alla luce della Fede, anche per chi vive nel Mondo ed è un semplice uomo, quale io sono, Giorgio, figlio del Conte Aghemo Di Pseudindia, servo del nostro Imperatore, devoto fedele del Santo Padre”.
“Bene, voi siete il messo imperiale che attendevamo da tempo, Giorgio Cavaliere” disse l’uomo in piedi, porgendo la mano, munita di grossi anelli, che il giovane si affrettò a baciare. “Ma giungete quanto mai in ritardo” soggiunse con voce stanca il vecchio vestito di iuta.
Ora che era in piedi, vicino a quelle due uomini, Giorgio, poteva osservarli in tutta la loro figura e coglierne appieno il lampante contrasto.
Il primo, che -ormai era evidente- era un vescovo, troneggiava su quel piedistallo, rivelatosi poi essere il capitello di una vetusta colonna, come se fosse la guglia di una cattedrale, cesellato fin nel più piccolo particolare, eccezion fatta per il volto e le mani, che spuntavano fuori da tutto il resto.
Già, perchè tutto il resto era di per sé un microcosmo visivo: l’intera figura del personaggio era ricoperta da un pesante paramento ecclesiastico, che discendeva fin oltre ai piedi, dando l’impressione che non ci fosse distacco fra la persona ed il blocco di pietra. Tale paludamento era degno di un arazzo Fiammingo. Composto di stoffa broccata, di un blu lapislazzulo intenso, alternava a quest’ultima delle damascature dorate che componevano motivi floreali richiamanti il cardo, il garofano e l’iris, con chiari riferimenti alla morte e passione di Nostro Signore. I bordi del mantello, senza i quali non si sarebbe fatta distinzione fra il medesimo e l’abito vero e proprio, tale era l’intensità e lo spessore della stoffa, erano decorati con ricami d’oro e di porpora, raffiguranti tutta una serie di sante e santi, raccolti dentro delle piccole strutture architettoniche, delimitati ai due bordi da una sottile linea di perle irregolari, ma estremamente piccole nella fattura e quindi per nulla discordanti le une dalle altre. Il vestiario, già di per sé pesante e duro, era poi fissato all’altezza del petto, da una vistosa ed incredibile fibula, così lavorata da incatenare con prepotenza lo sguardo dell’osservatore ad essa: si presentava come un disco piatto, rotondo, con un bordo di oro traslucido, nel centro del quale un rubino a forma rettangolare mostrava tutto il suo fulgore, acquito dal contorno di zaffiri e perle che gli era stato posto attorno, proprio con l’intento di far risaltare le reciproche cromie.

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