Guardati bene, è la stessa solfa. Ventisette anni buttati a correr dietro a qualcosa d'irraggiungibile. Buttati. E mica puoi tornarci indietro a riprenderli, gli anni, quelli se ne vanno e chi s'è visto s'è visto. C'è un tale sgraziamento nel tempo che scorre, un'epopea che svanisce; di cose se ne sono viste, cose a bizzeffe, cose d'ogni genere e consistenza, eppure son tutte sfiorite, così, non ne resta che solo un flebile alone nella memoria.
La memoria è tutto quello che ci resta, dico io, di questa vita miserabile. Puoi ritrovare, a pensarci bene, cose di te che pensavi perse da un pezzo. È questa la materia del sogno: la memoria. E allora ti metti a scrivere un diario.
Questo diario, una santa volta, è una scommessa. Vuoi vedere, dico io, che solo così riesci a riordinarti le idee?! E poi non c'è cosa più stimolante di mettersi in competizione con se stesso. Due parole, buttate giù alla meglio posso, pensieri che si scaricano dal cervello alla tastiera, una crisi svelata, raccontata, offerta in tutta la sua spudorata violenza. Una missione da compiere: sentirsi più leggero.
Perché scrivere ha la sua valenza curativa. E allora vai alla grande con questa danza di parole che inonda la pagina. Depressione. Sangue. Cervello. È tutto dentro. Tutto in fondo. È una magia. Perché non afferrarla.