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la via da percorrere
Quella sera fu la mia ultima volta al Malacarne.
Fu l’ultima volta di Sergio.
Avevamo trent’anni: la nostra età non ci consentiva di essere troppo bambini, e non ci dava la possibilità di essere maturi. Cosi sfogavamo la nostra frustrazione in occupazioni di vario genere, per noi di vitale importanza: io cambiavo lavoro ogni due settimane, Roberto cambiava donna ogni due giorni.
Laura tradiva Sergio anche lei una volta ogni due giorni.
E poi c’era Sergio, con il suo sorriso cosi infantile: lui non si sapeva bene cosa facesse.
Un giorno, ricordo, passai da lui prima di andare al locale. Guardava “Un posto al sole”. Sparsi per il soggiorno un cucchiaio, una ciotola con dell’acqua calda, fiammiferi: la siringa, sparita.
Aveva appena terminato la lettura di “Come una bestia feroce”.
Notai le sue occhiaie: sembravano dipinte col mascara.
Tutto in lui era in un certo modo forzato: non riuscivi bene a distinguere tra finzione e realtà.
Era in perenne attesa.
Sergio al Malacarne era gay, mentre in realtà era sposato con Laura.
A lui piaceva giocare: quando entravamo, nel locale era un festa di culi maschili che cadevano sotto i colpi sicuri della sua mano.
Sapeva benissimo che Laura lo tradiva: a lui andava bene cosi, lo sapeva di non averla mai soddisfatta, né a letto né fuori.
A lui serviva qualcuno che si prendesse cura di lui; lei aveva preso sul serio questo impegno.
I problemi sorsero quando lei scappò in India, ad inseguire un negro bello e facoltoso che le offriva una grande casa e molto sesso, tutto gratis.
Sergio resse all’urto. Era convinto che tornasse, prima o poi. Era quello il suo destino, si ripeteva, c’è chi ci nasce, diceva. La sua forza era non stare quasi mai in casa, quella sua apparente estraneità alla realtà che gli faceva vivere gli eventi alla moviola, senza esserne partecipe.
Per tutto il tempo in cui Laura stette in India, la nostra conversazione era ridotta ad una sola domanda.
-Massimo, ma sarà poi vero che i negri ce l’abbiano cosi grosso…il cazzo, intendo?-
Con quella precisazione finale, a chiarire. Il fatto è che la voleva seriamente una risposta.
La voleva sempre, una risposta.
L’aveva voluta anche quella sera, una risposta. Poi, insoddisfatto, se n’era tornato a casa presto.
Io lo lasciai andare: ancora non sapevo che sarebbe tornata Laura.
Prima di tornare, lei aveva lasciato almeno due messaggi sulla segreteria di Sergio; o cosi mi disse.
Quando varcò di nuovo l’entrata del Malacarne, Sergio non era lì ad aspettarla. Non ne rimase delusa, ma questo non le impedì di sentire un brivido di freddo lungo la schiena, quando ci abbracciammo.
La tensione iniziale poco a poco si sciolse, e tutto si permeò di una luce calda e avvolgente.
Le risa si moltiplicarono, le caraffe di vino pure, e Roberto decise che era venuto il turno di Laura. Era fatto cosi, non era il cervello a decidere, per lui.
In un primo momento riuscii a frenarlo, poi il vino fece il suo effetto, e la situazione mi sfuggì di mano.
L’atmosfera era rovente, i tavoli di legno bruciavano sotto la cenere delle sigarette, il locale ribolliva di caos e musica. Lorenzo era in affanno; mi misi ad aiutarlo dietro al bancone.
Tutti quelli che venivano ad ordinare mi davano pacche sulle spalle, si congratulavano con me indicando con sguardi ammiccanti a non so bene quale parte del locale.
Io cercavo di guardare oltre la nebbia davanti a me, ma l’impresa era ardua, e gli occhiali non mi aiutavano affatto.
Telefonai a Sergio tre volte, gli urlai di venire. Ero del tutto insensibile a ciò che mi diceva: effettivamente non capivo bene se dall’altra parte ci fosse veramente qualcuno.
Mi divincolai a forza da quell’ammasso di corpi unti ed eccitati, uscii fuori, a prendere un po’ d’aria.
Accesi una sigaretta e aspettai l’ondata di rigetto.
Vomitai sul marciapiede tutte le mie ansie, sotto lo sguardo compassionevole di una vecchietta assai preoccupata. Feci segno che era tutto a posto. La simpatica vecchietta rispose facendo capire che dovevo ripulire, lì a terra.
Fanculo, pensai.
Ma poi feci il mio dovere.
Di Sergio ancora non avevo scorto l’ombra. Speravo tanto che venisse a salvarmi, che venisse a salvare tutti da quel delirio collettivo.
Ripresi fiato e mi rituffai in quella meravigliosa corsa all’estremo, tutta in acida apnea.
La sera era destinata a finire, languida, quando da fuori si sentì uno sparo.
L’aria si seccò, fu un coito interrotto. Tutto si spense in un imbarazzante silenzio che sclerotizzava ogni muscolo facciale.
Vidi Roberto precipitarsi fuori, forse aveva già intuito tutto, poi sparì nel buio della strada.
Realizzai l’accaduto solo quando mi accorsi di camminare sulla pozza di sangue giusto sotto l’entrata.
Sergio era li, disteso lungo il marciapiede, con la fronte imperlata da una pallottola e un sacchetto di eroina ficcato nella bocca.
Qualcuno aveva deciso che per lui la giostra non avrebbe più girato. Quel qualcuno doveva essere molto incazzato con lui.
Vidi Roberto ansimare, gli occhi lucidi, e un senso d’impotenza avvilente in tutto il corpo.
Sentii la mano di Laura stringere la mia. Tremava, e lunghe strisce di mascara le coloravano le guance.
Feci per chiudere gli occhi ancora aperti di Sergio. Mi fermai: facevano tenerezza, cosi sgranati, erano increduli, erano ancora allegri.
Mi sedetti al nostro tavolo di sempre e accesi un’altra sigaretta, con un’incosciente tranquillità in mezzo al flusso della gente che si riversava in strada.
Lorenzo mi si avvicinò, mi pose una mano sulla spalla: c’era qualcosa di strano nella convulsione dell’azione, qualcosa di sinistro, forse interpretai male un semplice gesto di amicizia.
Strisciai fuori dal retro, sentivo le sirene della polizia cercarmi.
Mi incamminai verso casa con calma. Dietro di me, una chiara scia di peste color rosso sangue.
Mi chiedevo se Sergio avesse avuto un tempo tutto suo.
Mi chiedevo perché avesse scelto me come tramite fra se ed il mondo.
Era tempo di cercare ciò a cui appartenevo.
La via da percorrere era troppo corta per il futuro che non vivevo ancora.
Arrivato a casa, mi guardai allo specchio: ero ancora vivo, io. Mi spogliai; feci un bagno.
In camera, vidi una lettera sulla scrivania. Era Valeria: non potevo ancora sapere che mi aveva lasciato.
In fianco, l’estratto conto della banca: distolsi lo sguardo.
Ero preoccupato. Non tanto per i probabili colloqui che all’indomani avrei dovuto tenere con la polizia.
No, c’era qualcos’altro.
La mia faccia riflessa sul vetro della finestra: non era mia quella faccia, non poteva essere mia.
Mi girava la testa.
“Well it’s alright-i’m in your way with my plans
if you want to-maybe we can start again”
Mi infilai sotto le coperte.
Chiusi gli occhi, e cominciai a piangere.
Non so bene quando li riaprii, il giorno dopo, ricordo una cosa però: in tanti anni fu la prima volta che non mi preparai il caffè.
Ero sereno; il cielo non minacciava pioggia.
Presi il cappello, scesi le scale di casa, e mi incamminai verso la città, a cercare lavoro.
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- Un racconto pieno di piccoli, ma fondamentali dettagli, ho quasi creduto di poterli vedere.
Come sempre le tue parole finiscono per regalarmi immagini...
- Mi è piaciuto molto. Narrazione coinvolgente.
- mi è piaciuto
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