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Anch'io

Superfici bianche, calce con stucco, ingessati da una vernice lucida. Pareti portanti e non, accoglievan cornici. Sdraiate in altezza, sostenute da una scheggia di ferro restavan sospese. Ve n’eran di vario tipo e dimensione. Piccole e grandi, più grandi che piccole, più piccole che grandi, e pure quelle mediamente dette medie. Due coppie di rette gemelle in fronte vicendevolmente, unite tra loro formavano una forma propria. Rettangoli, quadrati. Ma questi son nomi da geometria. Loro erano, e si sentivano, cornici, architettonicamente definite. Erano da tempo inpreciso di casa tra quelle quattro mura, chi più vicino, chi più lontano da quei quattro angoli retti. Un mondo raccolto su di se dove non vi era prospettiva. Pur nella loro omogeneità formale, ognuna delle cornici era caratterizzata da qualcosa. La maggior parte appartenevano alla famiglia del legno, altre a quella dell’alluminio, poche altre si riconoscevano in quella della plastica. Ma non vi era solo una distinzione etnica. Lo status era un altro elemento discriminante. A quelle intarsiate e intagliate era riconosciuta una qualche superiorità. Si pensava che, essendogli stato dedicato maggior tempo nella fase di “creazione e lavorazione”, fossero in qualche modo degni di maggior attenzione da parte del Dio che l’avesse create, e quindi meritevoli di maggior rispetto da parte di tutte le altre cornici. Quelle spoglie di decorazioni si limitavano a curare ciò che le era stato affidato. Un quadro, una fotografia, uno specchio. Conducevano un’esistenza più sobria. E non erano neanche particolarmente belle o attraenti come quelle dorate.

Una volta, verso le 10 della mattina, la stanza si riempiva di luce. C’era infatti, sul lato che dava ad est, un’ampia finestra. Successivamente, senza un apparente motivo, era stata murata. ”Chissà perchè” si chiedevano talvolta le cornici. ”Era una cornice così solare” diceva chi se la ricordava bene. ”Era una delle poche che sapeva guardare al di là della realtà quotidiana, andava oltre”. In effetti la finestra rimpianta aveva il pregio di osservare la vita che accadeva non da un’unico punto di vista. Sapeva che quella stanza era solo un mondo, non il mondo, ne il tutto e che il tutto circondava e perpetuava in quella stanza, fuori e dentro di lei, e chissà in quante altre cose prossime e infinite.
Ora, mancando lei, veniva meno pure lo sguardo che lo cornici potevan rivolgere all’esterno, a quelle montagne spolverate da colori sfumati di chiaro. Nell’aria improvvisamente priva di luce, persisteva ora uno scuro penetrante che assorbiva l’unico possibile contatto tra loro, quello visivo. Ecco ognuna sola con se stessa. Nessuna capiva. Perchè Colui che le aveva messe lì non fosse più tornato, a guardarle, o almeno a guardare cosa avevano da dire, a sentire esaltare le immagini racchiuse dentro di loro. Un paesaggio dipinto con acquerelli, un ritratto di un essere con occhi naso e bocca, un omaggio al Dio stesso. E cosa avrebbero dovuto dire le cornici che avevano scelto la via del riflesso, lasciato ogni identità predefinita e diventati semplicemente specchi dell’esistenza che li circondava.
Avvolti dall’indifferenza, ogni cornice voleva tornare ad essere consisìderata. Ma avrebbe avuto bisogno di un intervento divino. Alcune sostenevano che il loro Dio sarebbe tornato, avrebbe riportato la luce, e ricominciato ad osservarle, mirarle in lungo e in largo nella loro sintesi di centro e periferia, contorno e contenuto. Tutte ci speravano, poche ci credevano. E poi, anche se fosse stato così, se la stanza fosse tornata veramente ad essere vissuta, chi avrebbe loro garantito la sospirata cura e gratificazione? Erano in tante. Qualcuna avrebbe potuto far la fine della finestra, sparire, oppure essere accantonata sotto terra, nella cantina che nessuna aveva mai visto. La paura era sempre più densa. Finchè non accadde.

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