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I vecchi Borghi
Recentemente ho comprato il libro di I. Insolera "L'Italia fascista nelle fotografie dell'Istituto Luce" Parla degli scempi architettonici fatti da Mussolini su alcune parti di Roma. Mi sono commossa e uno alla volta mi sono venuti in mente i racconti di mia nonna sulla bellezza dei Borghi dove lei abitava da giovane. Li ho raccolti in un racconto intitolato "Ivecchi Borghi".
Questo è l'inizio: Verso la fine degli anni trenta il piccone mussoliniano si abbatté sulla famosa spina che formava i due vecchi borghi. Borgo Nuovo ovo e Borgo Vecchio. Da Piazza Pia. la lunga sequenza di palazzi, alcuni dei quali veri capolavori architettonici, correva dritta verso Piazza S. Pietro formando le due vie che sboccavano nella bellissima Piazza Rusticucci contornata da vecchi palazzi color ocra e frequentata da turisti e soprattutto dai residenti, i "borghiciani". Piazza Rusticucci era un gioiello, splendido per l'armonia in cui si componeva la varietà di volumi, superfici e colori. Sempre molto animata era la degna anticamera di S. Pietro sulla quale direttamente si apriva. Vi sostavano in permanenza le carrozzelle a cavallo guidate da vetturini
dalla lingua svelta, bonaccioni e scanzonati. Il ristorante Europeo che godeva meritatamente la fama di garantire una cucina ricca e rigorosamente romanesca,
era il luogo dove i borghiciani festeggiavano con memorabili pranzi feste religiose
e avvenimenti privati. Caffè e negozi di articoli religiosi si affacciavano discretamente e gioiosamente sulla piazza.
Il "genio" di Mussolini, abbattendo la spina, non compì soltanto uno scempio architettonico e urbanistico, ma anche uno scempio umano, disperdendo una comunità civile complessa ma aggregata, portatrice di pregiudizi ma anche di valori, ricca di molte virtù e di qualche vizio. Una comunità, comunque, molto vitale. I borghiciani si conoscevano tutti, direttamente o indirettamente. Erano capaci di grandi gesti di solidarietà ma non erano esenti da invidie e gelosie.
Nonostante fossero tutti popolani, come si diceva allora, tenevano a conservare, più sul piano teorico che su quello pratico, gerarchie sociali fatte a loro misura e secondo loro criteri. Gli abitanti di Borgo Nuovo, che era più bella di Borgo Vecchio, si sentivano un gradino più su di quelli dell'altro Borgo. Poiché le due vie avevano molti negozi, la gerarchia investiva anche i commercianti: i macellai si consideravano più dei "fruttaroli", i merciai e i negozianti di stoffe più dei macellai e dei "pizzicaroli", gli orefici e i venditori di oggetti sacri più di tutti gli altri.
I frati di S. Maria in Traspontina sfuggivano a qualsiasi catalogazione sociale.
Rispettati da tutti i borghiciani, erano tuttavia trattati con familiarità e confidenziale disimvoltura. Non c'era famiglia dei Borghi che non avesse avuto a che fare con
qualcuno di loro o per aggiustare qualche matrimonio traballante o per combinarne qualcuno o semplicemente per aver trovato, attraverso i frati, pellegrini o turisti a cui affittare un pezzo di casa.
All'epoca del sindaco Nathan i Borghi si erano divisi: una piccola minoranza
anticlericale si era schierata a suo favore, mentre la maggioranza papalina vedeva
in Nathan una specie di Anticristo venuto a tentare una fede in verità non molto profonda, basata più che sull'interiore convincimento su abitudini e consolidate tradizioni. Il più accanito contro il sindaco era il vecchio sor Pietro, un uomo sanguigno e compagnone che il 29 giugno, festa di S. Pietro, mandava in molte botteghe di commercianti suoi amici grossi bicchieri di granite di caffè con panna.
Il rancore del sor Pietro verso il sindaco divenne presto una specie di umoristico mito che contagiò perfino i frati. Frà Andrea, il sacrestano, si divertiva a stuzzicarlo: quando la mattina di buonora lo vedeva comparire in chiesa, lo accoglieva con un: "E allora, sor Pietro, che ne dite del sindaco?" "Mortacci sua"-
rispondeva, cupo, il vecchio. La storia durò un bel po' fino a che non la fece finire il parroco, ammonendo bonariamente frà Andrea. La Traspontina non era l'unica chiesa dei Borghi. C'erano S. Lorenzino, S. Angelo e S. Giacomino. Questa si affacciava su Piazza Scossacavalli che congiungeva per un breve spazio Borgo Novo e Borgo Vecchio e che aveva al centro una fontana tanto bella da imporre rispetto al piccone di Mussolini. Infatti fu smontata e ricomposta in una piazza romana davanti a S. Andrea della Valle.
Mattina e sera le campane delle chiese facevano sentire le loro voci, voci acute e rapide come quella di S. Giacomino, pacate e gioiose come quella della Traspontina, basse e solenni come quella del campanone di S. Pietro. I borghiciani
sentivano parlare le loro campane. "Polenta fritta, polenta fritta!" - annunciava
S. Giacomino. " 'N do se venne?, 'n do se venne?" chiedeva la Traspontina. "In boorgo, in boorgo!" - rispondeva il campanone.
Le feste dei Borghi richiamavano molta gente anche dagli altri quartieri. Nella Traspontina c'era una statua della Madonna del Carmine molto venerata. A luglio la statua veniva rivestita di tutti gli ori, dei cuori d'argento donati per grazia ricevuta e portata in una processione lunghissima e coloratissima che iniziava con gli uomini della Confraternita che portavano a spalla la statua della Madonna e si
chiudeva, dopo un lungo percorso, con una folla numerosissima che cantava a squarciagola gli inni religiosi più popolari. Nei giorni precedenti le feste più importanti, i Borghi vivevano una grande animazione. Tutte le botteghe di alimentari esponevano una grande abbondanza di merci. Dalle porte delle macellerie pendevano lunghe file di agnelli e polli e i fruttivendoli costruivano sul
marciapiede castelli di cassette colme di frutta. Per le vie era tutto un via vai di gente, eccitata dall'atmosfera di festa, indaffarata e allegra. I tram che passavano per i due Borghi dovevano procedere lentamente perché i binari correvano quasi rasente i marciapiedi, sempre affollati. Fu proprio durante una festa che il giovane
figlio del carbonaio di Borgo Vecchio finì sotto il tram, morendo sul colpo. Il padre fece causa all'azienda tranviaria e la vinse ma non volle nemmeno una lira della rilevante somma che il giudice aveva stabilito come risarcimento. Per molto tempo le famiglie commentarono con rispetto il rifiuto del carbonaio che in tribunale aveva detto."Nessuna somma può pagare la vita di mio figlio. Mi sembrerebbe di ucciderlo una seconda volta se accettassi del denaro fissato come una merce".
Fra tante feste i borghiciani aspettavano certe ricorrenze speciali che prevedevano l'illuminazione della cupola di S. Pietro, realizzata tutta con le fiaccole. Si trattava di un'operazione ardua : si dovevano collocare le "padelle" piene di olio lungo tutta
la parte superiore dei colonnati, sulla balaustra della terrazza inferiore della cupola
e su, su, per tutta la cupola stessa fino al suo terrazzino circolare superiore. Le
padelle erano sistemate nei punti più difficili da esperti sampietrini che procedevano legati a corde come alpinisti. Ai posti più accessibili erano addetti giovani borghiciani che, oltre a soddisfare il gusto dell'avventura, potevano guadagnare una bella sommetta. Quando la sera della festa le padelle erano accese simultaneamente da decine e decine di mani, lo spettacolo che si offriva ai borghiciani, ai turisti e ai pellegrini, era davvero unico. Non era nemmeno uno spettacolo ma un evento estetico, religioso, sociale. Piazza Rusticucci raccoglieva la luce delle fiaccole che faceva rosseggiare i colori dei suoi palazzi.
Il popolo dei Borghi aveva i suoi protagonisti le cui storie erano note a tutti. La sora Teta, la moglie del macellaio era soprannominata "il carabiniere" per il
carattere autoritario e la durezza con la quale affrontava le situazioni. Una volta, avuto da una sua figlia ficcanaso, un indirizzo femminile trovato nelle tasche di un figlio scialacquone, giocatore d'azzardo e donnaiolo, irruppe nella casa indicata dal biglietto e, sorpreso il giovanotto a letto con una ballerinetta, lo schiaffeggiò sonoramente e ripetutamente alla presenza della povera ragazza che, al colmo dello spavento e dell'imbarazzo, implorava Teta che sventatamente si era portata appresso la figlia: " Si calmi, signora, si calmi. Lo faccia per la signorina". E guardava con occhi miti la perfida spia.
Teta era molto devota; andava in chiesa mattina e sera ed era molto amica dei frati della Traspontina. Eppure una volta giocò un tiro mancino a frà Elia, vantandosene con tutto il quartiere, sicura che nessuno l'avrebbe tradita. Frà Elia
le aveva chiesto il favore di cucire delle lenzuola per la comunità dei religiosi. Andarono insieme a comprare la tela ma, usciti dal negozio, Elia seguì Teta a casa sua con l'evidente scopo di assistere al taglio della tela. Offesa per la mancanza di fiducia, Teta chiamo la figlia maggiore e insieme a lei fece volteggiare abilmente il telo arrotolato. Giostrando velocemente con centimetro e forbici, dando ordini precisi alla figlia: "Reggi qua, Taglia là", fece sparire sotto gli occhi del frate tutto un lenzuolo. Compiuta l'operazione contò davanti al frate i teli preparati per la cucitura. "Uno, due... sei e sette". "Ma erano otto"- disse frà Elia. Teta lo guardò con un leggero sorriso. "Ve sarete sbajato a dì ar commesso er nummero dei lenzoli. Fregà, nun va fregato nisuno. Guardateve intorno, qui nun ce sta niente"
Frà Elia se ne tornò al convento piuttosto frastornato. Il giorno dopo ritornò al negozio e protestò con il commesso che si offese e avanzò l'ipotesi che Teta avesse fatto sparire un lenzuolo. "No, no- disse frà Elia - la sora Teta è persona degna di fiducia. E poi ha tagliato la stoffa sotto i miei occhi". "Brutto burino!- com-
mentava intanto Teta con la sora Evelina- Nun s'è fidato. E io je l'ho fregato sotto l'occhi. Nun ho fatto bene, sora Evelì?". "benone avete fatto! Così s'impara" - e rideva, la sora Evelina, lei che non rideva quasi mai da quando, entrando nelle fontane del palazzo dove abitava, aveva visto pendere dal soffitto sua madre, con una corda al collo. Tutto il quartiere era rimasto scosso dal suicidio della sora Antonia, ma non se ne parlò per molto. I familiari non dissero i motivi, forse non li
conoscevano bene nemmeno loro. E la gente provò pudore e rispetto per una sofferenza di cui non si conoscevano le cause ma che doveva essere stata grande se aveva spinto una donna mite e devota a buttare via la propria vita. I frati tacquero e non aprirono la porta della chiesa ad una bara che prese la via del cimitero quasi di soppiatto, accompagnata da pochi parenti.
Di bare i borghiciani ne videro passare parecchie e con lunghi cortei, l'anno della "spagnola" che strappò ai vecchi Borghi molte persone, in maggioranza giovani. In quella occasione i borghiciani mostrarono il loro animo generoso. Le famiglie risparmiate soccorrevano quelle colpite. C'era sempre qualche donna
disposta a fare le punture, spedire le ricette, fare compagnia all'infermo per il quale si preparavano brodi sostanziosi. E se servivano soldi, nessuno era costretto a chiederli. Arrivavano spontaneamente da molte famiglie. Anche la tubercolosi si prese una bella quota della popolazione giovanile. Una nipote di Teta che studiava canto se ne andò a ventanni. La gente cominciò a sussurrare che la causa della malattia fosse stato il canto, non perdonando, nemmeno nella tragedia, il coraggio, anzi, per loro, la scosideratezza della madre che non aveva esitato ad avviare la figlia ad una carriera piena di pericolose tentazioni. Amelia, la madre, aveva sopportato in silenzio questa malignità. Soltanto una volta, ad un'amica che cercava di consolarla con un argomento che a lei sembrava una bestemmia." "Forse Dio se l'è ripresa per sottrarla ad una vita di peccato", aveva risposto."Non nominare la Provvidenza invano. Sono sicura che Maria, cantando in teatro, non avrebbe perso la sua innocenza".
Nei vecchi Borghi non tutti erano innocenti. C'erano mogli che tradivano i mariti
e mariti che tradivano le mogli. Della sora Checca si diceva che tradisse il marito perfino con i preti che frequentavano il Vaticano. Lei, una bruna dagli occhi maliosi, si lamentava del marito che la trascurava, sempre inchiodato com'era al suo negozio di "santaro". "Ah, ma io nun m'ammalo pé lui- diceva Checca - un vermutte e una brioscia e me passano tutte le buggere". Ma la gente era convinta che non fossero i vermuth e le brioches a farle passare le buggere.
Succedevano cose proprio incredibili, nei vecchi Borghi. Achille, l'imbianchino.
aveva amanti di qua e di là e la moglie, una donna magra e sempre spaurita, era costretta a fare la lavandaia a domicilio perché, con i pochi soldi che le dava il marito, non ce la faceva a tirare avanti i quattro figli. Achille, oltre che infedele era anche manesco e Peppina, la moglie, non si vegognava a confessare di prenderle dal marito. Eppure, nonostante lo temesse tanto, confidava alle amiche che quando Achille voleva fare l'amore con lei, lo costringeva a pagarla. "E che devo fa?- diceva- si paga l'amiche è giusto che paghi pure a me che so la madre de li fiji"
Quando era in vista un matrimonio tutto il quartiere era in movimento. Si
scambiavano informazioni sullo sposo o la sposa, specialmente se erano di un altro quartiere o addirittura forestieri. Stando così le cose, suscitò un interesse enorme ed un vespaio di chiacchiere il matrimonio della figlia di un caffettiere.
La ragazza, piccolina ma molto graziosa e raffinata, sposò un nobile forestiero di cui i borghiciani riuscirono a sapere ben poco. Fu un matrimonio di lusso, con la sposa in abito bianco, insolito per quei tempi, e lo sposo in marsina. La famiglia del
caffettiere salì ai vertici della gerarchia sociale e vi rimase anche quando, tornati gli sposi dal viaggio di nozze, tutti i borghiciani seppero, chissà come, che lo sposo, la prima notte di nozze, era rimasto a sedere su una poltrona, invano
incoraggiato e accarezzato dalla moglie che aveva indossato un'audace camicia da notte. Le notti successive furono uguali alla prima, tranne una insignificante differenza: lo sposo, la terza notte, aveva abbandonato la poltrona per il più comodo letto. In Borgo tutti sapevano ma la sposa vergine e la sua famiglia fingevano di non sapere che tutti sapevano e per orgoglio non chiesero mai alla
Sacra Rota, l'annullamento del matrimonio. Tutti furono generosi con la sfortunata famiglia. Nonostante i commenti fossero tanti e piccanti, nessuno si azzardò mai a fare la più piccola allusione in presenza della sposa o di qualche membro della sua famiglia.
Quando i borghiciani ricevettero lo sfratto per l'imminente demolizione delle loro case, maledissero le manie di grandezza di Mussolini. Erano convinti che nessuna bonifica urbanistica avrebbe potuto sostituire la bellezza delle loro vie che, scorrendo intorno a S. Pietro, larghe o strette, rumorose o silenziose che fossero, facevano dell'antica basilica un monumento vivo, immerso in una vita cittadina di cui il suo campanone scandiva puntualmente i ritmi.
I più poveri dovettero allontanarsi, come emigranti, in squallide ed amorfe periferie. I benestanti cercarono casa nel quartiere Prati che non li accettò. La loro
concezione delle gerarchie sociali fu mandata all'aria da impassibili portieri in divisa che, data un'occhiata ai loro interlocutori, scuotevano la testa e negavano
che nei loro palazzi ci fossero appartamenti in affitto anche se un cartello affisso sul portone li smentiva clamorosamente. La prima a capire il vero motivo del rifiuto fu la sora Teta che, dopo aver peregrinato da un palazzo all'altro, dette sfogo alla sua rabbia popolana con l'ultimo portiere da lei interpellato. "Eh, già! Io e le fije mie nun portamo er cappello. Come potemo abbità nelle case de li signori? Teneteveli
a caro, sti porci signori. Ve devono pagà bene pe' tené segrete le loro porcherie.
Manco morta verebbe a stà in un palazzo come questo"
Soltanto due o tre orefici riuscirono a sistemarsi nel quartiere Prati. I borghiciani si dispersero, così, per tutta Roma. Molti di loro non si rividero più.
Nota: questo racconto ha avuto una segnalazione al concorso Petroselli, organizzato al colune di Roma.
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