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L'ufficio del tempo
Il cartello delle prenotazioni scandiva i numeri con una lentezza snervante. La fila dei soliti volti si dipanava nello stretto ufficio amministrativo, saturo di carte e rumori elettrici, sudore e pianti di bambini insofferenti, marmi scadenti ai pavimenti e arredamenti funzionali dai colori smorti e confortevoli. L’aria era resa pesante dal forte riscaldamento, pompato dalle tubature metalliche con un sordo fruscio appena percettibile, ma che alla lunga finiva per infastidire le orecchie, persistente e insensibile com’èra.
Una signora d’età indefinibile, avvolta in un cappotto grigio topo che la fasciava come un grosso sacco, i capelli divisi in testa da una linea che mostrava i segni di un’inesorabile canizie, sbuffava e si agitava, vistosamente a disagio per la lunga attesa. ‘Però, che fastidio! ?" sbottò rivolgendosi ad un malcapitato vicino - Tutto questo tempo soltanto per una bolletta, con tutto quello che devo ancora fare!’ L’uomo rispose con un cenno saggio della testa, un’alzata di spalle, e cominciò a fissare con aria di rimprovero i commessi dell’ufficio, che svolgevano le loro mansioni con una ritualità che, a parer comune, non sarebbe mai stata sufficientemente efficace.
‘Guardi lì ?" continuò la signora, per nulla scoraggiata dalla scarsa attenzione ricevuta dal suo compagno di sventura?" guardi quella signorina…Che nervi! Andiamo, faccia in fretta! Quanta flemma, non abbiamo mica tempo da perdere qui!’ Il vicino, imbarazzato, cacciò il telefono da una tasca, ed iniziò a picchettare sui tasti luminosi con estrema precisione. La fila non muoveva un passo, si disarticolava, da una linea retta si spezzava in un contorto serpente, ognuno tentava di vedere oltre il suo successore, spostando il peso da una gamba all’altra, affiancandosi senza superarsi, pressando con gli sguardi gli impiegati affaccendati con i loro terminali, sommersi di carte e di voci, mentre i biglietti del turno si mutavano in stracci nelle mani sudate dei tanti impazienti anelli della lunga fila.
Un uomo distinto, al centro del serpente, volgeva lo sguardo intorno a sé. Osservava con curiosità i movimenti della folla, pronto a cogliere i segni di fastidio che esplodevano sui volti ad intervalli regolari. Un orologio a lancette, su una parete, scandiva silenziosamente i tanti secondi di cui si componeva quella scena: sembrava muoversi alla rovescia, e a volte fermarsi, capriccioso e inesorabile, cancellando progressivamente nella sua marcia i piani di tanta gente, incurante delle rimostranze e dei borbottii che si sollevavano come un rumore bianco insistente al di sopra della massa amorfa di capelli, mani, piedi, giacche e gonne, borse e profumi mescolati con scarsa sapienza.
L’uomo si stancò della scena, si allontanò dalla folla?" la sua mossa animò l’entusiasmo di coloro che lo seguivano, che rapidamente guadagnarono la posizione e si accomodarono un po’ più avanti, un po’ più contenti. Cercò con lo sguardo un posto dove riposare, e trovato un sedile libero si accomodò, incrociando le gambe. Accanto a lui sedeva una giovane madre con due bambini, che litigavano tra loro per tenere il bigliettino del turno, incuranti dei richiami della donna. Uno di loro, incuriosito dal nuovo vicino, si fermò a guardarlo a lungo, avvicinandosi timidamente sino a sedersi tra lui e la madre, attratto dal signore misterioso la cui barba ricordava un po’ gli orchi delle fiabe. L’uomo, a sua volta, non smetteva di osservare il bambino: questi poteva avere al massimo cinque anni, era piuttosto piccolo per la sua età; i suoi capelli scuri contrastavano con gli occhi chiarissimi e curiosi. Il bimbo aveva un’aria stranamente triste, un’espressione seria e compassata: evidentemente la madre lo teneva d’occhio, e lui sapeva come comportarsi in presenza di estranei.
L’uomo tirò fuori da una tasca dell’impermeabile una piccola agenda. Presa una penna, iniziò a scrivere con una calligrafia minuta e fittissima. Ogni tanto alzava gli occhi dal foglio, girava la testa intorno, per poi tornare a scrivere con rinnovata foga. Man mano che procedeva nella scrittura, la sua espressione si fece più assorta, e progressivamente dimenticò il resto, la fila, i bambini e la donna?" che intanto si sgolava per tenere calmo l’altro bambino, che aveva iniziato a frignare e chiedeva di uscire?" per concentrarsi esclusivamente sulle sue riflessioni.
‘Ancora un giorno…ancora uno.
Stamattina, svegliandomi, ho provato una sensazione che non sentivo più da tanto tempo. Ho sentito un morso allo stomaco, e ho pianto. Ho cercato la ragione del mio malessere, ma non ho trovato nulla. Non sentivo nulla se non un dolore sordo, un vuoto profondo che mi dava le vertigini, eppure niente, niente che potesse apparire come la possibile causa del mio stato d’animo. Ho deciso allora di tirarmi su, ho ricacciato indietro l’amaro e mi sono attivato. Avevo tante cose da fare oggi…
Preparando il caffè ho incontrato per la prima volta le lancette del mio orologio. Scorrevano come sempre, silenziose e precise. Alle otto ho acceso la televisione, per il primo giornale del mattino. Non so perché continuo a farlo: credo sia una specie di rituale, un modo per avvicinarmi al mondo, per sentirmi parte di esso, per informarmi su come stiano i miei simili sparsi nel mondo. Come ogni giorno, le notizie non erano buone. Ieri un ragazzo è morto, ucciso da un agente di polizia nel centro di Atene, per motivi ancora poco chiari. Dicono che fosse un facinoroso, un piantagrane rivoluzionario che protestava contro non so bene cosa, e che durante un corteo particolarmente violento alla polizia sia sfuggita di mano la situazione, e così c’è scappato il morto…
Adesso, dicono, la situazione peggiora di ora in ora. I cortei si accaniscono contro le forze dell’ordine, diversi agenti sono stati feriti, l’ordine pubblico è a rischio. Il cronista ha dichiarato che le autorità greche sono impegnate in un braccio di ferro con la società civile, che il rischio di sovversione è reale, e ha rimandato a prossimi aggiornamenti. D’un tratto ho ricordato la giunta dei colonnelli, le strade in fiamme e le parate militari. Intanto il caffè bolliva dentro la caffettiera: l’ho dimenticato lì, completamente dimenticato, come se non fosse mai esistito. Ho guardato ancora l’orologio: non ha smesso di muoversi, implacabile come sempre.
Stamattina avrei dovuto finire il rapporto sul bilancio della società per cui lavoro. Ho acceso il computer, e prima di mettermi al lavoro ho guardato ancora qualche notiziario. Da tutte le fonti emergono notizie spaventose, minuziosamente ordinate secondo una precisa cadenza cronologica. Ho spento il computer, e sono tornato in sala da pranzo. Non c’era nessuno in casa, la luce del mattino era rossa e forte. Per un attimo ho avuto l’impressione che fosse già sera, e mi sono sentito stanco, come alla fine di una lunga giornata.
Sono uscito di casa, come ogni mattina. La strada era fredda, pochi passanti si muovevano in fretta per sfuggire alla morsa del gelo. I negozi iniziavano a tirare su le imposte, pronti ad un’altra giornata…un’altra giornata, ancora altre ore dedicate a svolgere un’attività che non cambia mai, dietro un banco a salutare persone che accorrono come ogni altro giorno, a comprare le stesse cose, salutano con il solito gesto e si informano con la solita indifferenza. Salito sul bus ho incontrato la stessa aria stantia, gli stessi volti insonnoliti: le chiacchiere, come al solito, sapevano di nulla. Un paio di vecchietti si infervoravano con la gazzetta in mano, oggi è lunedì, ieri s’è consumato il circo massimo, oggi si raccolgono i feriti e si commentano le gesta. Alcune donne, riunite in crocchio, lamentavano come sempre la difficile condizione del presente, i prezzi sempre più alti, i valori sempre più bassi, l’età dell’oro ormai lontana in un passato che appare definitivamente sbiadito, irrecuperabile, perduto…Le previsioni sono fosche, il futuro non riserva nulla di buono. Ho chiesto al mio orologio: ha continuato a scandire il suo tempo, sereno e indifferente.
È stato forse allora che ho capito. Che ho sentito la radice del vuoto, l’origine del pianto, la sorgente della disperazione. Ho continuato a guardare l’orologio: secondi dopo secondi, una clessidra che si consuma e si rigenera senza sosta, un moto perpetuo e insensato, che consuma nel suo lento fluire tutto ciò che esiste.
Ha continuato a battere ancora un po’, e alla fine, con un sorriso ironico, s’è fermato.
Intorno a me nulla è cambiato, la gente ha continuato ad esistere come sempre, le chiacchiere non hanno smesso di riempire l’aria, il freddo è rimasto tale. Il tempo non esisteva più, il mondo continuava a scorrere nonostante tutto. Ho provato un senso di timore panico, non riuscivo a capacitarmi: ho iniziato a scuotere la testa, aspettando di svegliarmi da un momento all’altro. L’orologio, chiuso nel suo terrificante mutismo, non si muoveva più. Ho incontrato lo sguardo di una ragazza incorniciato da capelli chiarissimi e da una aureola di plastica che partiva dalle orecchie e finiva in un gingillo argentato: lei ha ricambiato il mio sguardo, ma s’è subito stancata e ha cominciato a guardare fuori, facendosi largo nella nebbia del finestrino con un polsino di felpa. Sconcertato, ho deciso di scendere.
Adesso sono qui, chiuso in quest’ufficio. Perché? Non saprei, non so proprio dirlo…magari, pensandoci, ho voluto vedere un luogo in cui si realizzano le scadenze, un luogo in cui la fretta riesce a donare ancora il senso del tempo che ho smarrito stamattina…La sensazione di smarrimento è insopportabile, il tempo s’è fermato, non c’è più tempo, non c’è più orizzonte, futuro, speranza…Abbiamo per troppe volte riempito il suo dominio con un’ossessiva ripetizione, e adesso il tempo, stanco di scorrere per nessuno, ha deciso di abbandonarci…”
L’uomo alzò lo sguardo dall’agenda. Intorno a lui la fila continuava a snodarsi con una frenesia trattenuta, impaziente ed esplosiva. Guardò il bambino seduto accanto a lui, che nel frattempo s’era addossato alla madre, la testa sulle sue braccia conserte, e guardava attorno con aria contrita. Il cartello delle prenotazioni continuava a scorrere con una lentezza esasperante, la signora con il suo brutto cappotto continuava a cercare qualcuno su cui sfogare la sua legittima indignazione per il prezioso tempo che le stavano rubando. Guardandola, l’uomo sorrise con mestizia: nessuno le poteva più rubare nulla.
Quell’attimo, quella sequela di gesti guidati da una invisibile necessità, si sarebbe eternamente perpetuato. Il gioco delle lancette era soltanto un ridicolo trucco: come può infatti un cerchio misurare qualcosa?
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- non molto diverso dal "pozzo e il Pendolo"... li almeno alla fine giugevano a salvare il protagonista... il senso della vita... inferno senza clamori