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il cammino

La campagna dormiva. Non si udiva nemmeno il suono delle cicale o il ronzare degli insetti in quel momento della giornata che i contadini chiamano “controra”.
La controra, dalle mie parti, sono quelle ore che, nelle giornate estive, vanno dall’una alle cinque del pomeriggio, quando il sole picchia le sue martellate più violente e non vedi nessuno per il paese o per le campagne.
La terra era secca, spaccata da secoli di siccità che le rare piogge e il sudore di quelli che la lavoravano non riuscivano ad alleviare, solo il vento giocava con i rami degli olivi centenari, che mio padre curava con amore ed entusiasmo.
Centocinquanta piante d’olivo in quello che era stato il podere di mio nonno materno, Domenico, e che ora lui stava facendo rifiorire.
Piante d’olivo a perdita d’occhio nello scenario di colline che dal paese rotolavano giù fino alla piana che aveva visto, secoli prima, la città di Sibari brillare e poi cadere.
Più avanti ancora, l’azzurro stupendo del mare.
Da lì, allungando le mani, si poteva quasi toccare il mare.
Conosco bene quel pezzo di terra che, ragazzino, quando si abitava ancora in paese, mi aveva visto vagare fra i suoi olivi, i fichi d’india fittissimi, le siepi di rosmarino.
Andavo in campagna con mio nonno ogni volta che potevo. Avevo circa otto anni allora e quando uscivo da scuola andavo a casa dai nonni a pranzare. Casa mia era distante dalla scuola un paio di chilometri ed io preferivo andare da loro, nel centro storico del paese. Lì vicino abitavano i miei amici, i compagni di classe, eravamo ancora in molti allora a giocare per i vicoli. Ricordo nitidamente soprattutto il profumo dell’aria quando si affacciava la primavera, e la luce abbagliante del sole che ci investiva quando si apriva il portone della scuola.
Mentre camminavo per arrivare dai nonni sentivo attorno a me la vita del paese. Dalle finestre delle case mi giungevano i discorsi delle persone, i litigi, i profumi dei piatti che le donne stavano preparando. C’era una sorta di intimità in tutto questo, che ti faceva sentire parte di tutto ciò che ti circondava, e poi in ogni casa c’era una radio accesa e le canzoni turbinavano in tutti i vicoli come scirocco africano.
Era un paese di contadini e agricoltori, ricco del sentimento delle persone, della loro affabilità e saggezza, dell’educazione, del loro alto senso dell’ospitalità e dell’accoglienza che tanto radicato è sempre stato in tutti noi e che ha avuto un ruolo basilare nella nostra educazione.
E la ricchezza era solo quella perché quasi tutti facevano enormi sacrifici per tirare avanti.
Mio padre allora lavorava in una cartiera, che in quegli anni era l’unica azienda che si potesse definire tale presente in paese. A dire il vero non era proprio in paese ma distava circa sette chilometri, nella piana ai piedi della collina dove si estendevano gli appezzamenti coltivati ad agrumeto.
Era un buon posto di lavoro, che dava la certezza di uno stipendio settimanale che per quei tempi e per quei posti era una benedizione.

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1 commenti:

  • Anonimo il 02/06/2011 12:19
    racconto interessante tra il bucolico e il nostalgico!

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