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Fino alla luce (parte I)

Venerdì dieci gennaio. Primo giorno.
Il sole tinteggia le bianche montagne biellesi di un giallo sopraffino. Il riverbero della luce invoca energia e vitalità. I bimbi giocano nei parchi con le loro mamme come fosse primavera. Il clima inganna il tempo. Le suole delle scarpe rimbalzano su marciapiedi affollati di routine.
Oncologia. Quarto piano. Day Hospital. Tra poco tocca a me. Si avvicina una dottoressa di media statura, giovane, bruna, i capelli raccolti senza cura; cammina dinoccolata. Scandisce il mio cognome e mi fa cenno di entrare.
Mia moglie e mio figlio D. mi seguono. Mi sdraio sul lettino e mi spoglio. La visita dura pochi istanti. La dottoressa esce. Il gelo. Mio figlio è in piedi e cerca di scrutare, immobile, il monitor che si trova sulla scrivania. Mia moglie ha lo sguardo perso nel vuoto. Io cerco i loro occhi per tranquillizzarli, ma non li trovo. So già tutto ciò che ci dirà al suo rientro e vorrei preparare i miei cari, ma loro sono inafferrabili, distanti anni luce. Il silenzio viene interrotto dalla becchina in camice bianco, che rivarca quell’indimenticabile soglia. M’invita a sedermi accanto a mia moglie, mio figlio è sempre in piedi. Lei dietro la sua bianca scrivania. Nei secondi che seguono si consuma il dramma: “…la situazione non è bella…tumore che parte dall’intestino… adesso ha contagiato il fegato…probabilmente inoperabile…faremo tutto il possibile…cominciamo con una colonscopia…”
Il corridoio del Day Hospital non è più quello di prima, è più lungo. L’ascensore è irraggiungibile, i muri di quest’ala dell’ospedale, intonacati di fresco, sembrano finti: c’è una luce abbagliante che confonde i contorni, anzi, pare sublimarli. Camminiamo come tre automi, senza parlarci, ognuno disperso nei propri pensieri, che fatalmente sono gli stessi degli altri due. È come se avessi contratto la malattia dentro quella stanza, anche se sapevo già tutto prima che venisse emessa la sentenza, figuriamoci cosa provano i miei, che non avevano la mia stessa consapevolezza. Dentro l’ascensore vedo mio figlio bianco come il camice e la scrivania del medico, e mia moglie buia come il mio cancro. Vorrei proferire qualche parola sdrammatizzante ma temo l’effetto opposto: qualsiasi cosa dicessi in questo momento potrebbe scatenare un intrattenibile tracimare di lacrime, perciò sopportiamo quest’agghiacciante silenzio.

 

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